Nel 2016 la FondazioneSozzani, di CarlaSozzani, luogo di sperimentazione e promozione delle arti visive tra fotografia e moda, si apre almetaversoe allacryptoarte, concependo una mostra di opere create dal noto artista newyorkese KrisRuhs. Tali opere si esplicitano in una particolare collezione di gioielli scultorei “NFTGenesisJewelry” progettati per essere indossati nella realtà aumentata.
KrisRuhs, classe 1952, frequenta la Schoolof VisualArtsdi New York City, città natale in cui apre il suo primo studio creativo. Sin da subito si distingue per la sua capacità di percepire ogni materiale con una potenzialità strutturale elevatissima, lavorandolo in modo tale da estrapolare tale potere e renderlo visibile e andare oltre i consueti confini della sculturaedella pittura.In quanto artista esploratore,Ruhssperimenta la forma in relazione alla luce, gioca con la percezione del materiale e la sua espressione riflessa, come avviene soprattutto per la collezione di gioielli da poter esplorare all’interno del sito personale dell’artista (http://www.krisruhs.com/). Ed è proprio attraverso i gioielli cheRuhsesplora un ulteriore mondo, quello delmetaverso.
Ormai da diversi anni ilmetaversoè entrato a far parte della nostra vita, aggiungendo una dimensione ulteriore al mondo circostante. Nell’arte e nella modaè uncontenitore di infinite possibilità creative e percettivecome nel caso della collezione “NFTGenesisJewelry” in mostra alla FondazioneSozzani. Larealepossibilità per la Fondazione di entrare nel mondo delmetaverso, nascegrazie all’amicizia conTailorVentures,fondatore dellasocietà di Venture Capital del settore tecnologico, che ha ideato la piattaformaXbinarye curatore del progetto NFTGenesisJewelry.
Per l’occasione sono stati selezionati daXbinarysette pezzi unici di gioielli scultorei di KrisRuhs, provenienti dal suo archivio,etrasformati nelle loro repliche digitali con la realtà aumentata,resi disponibili all’interno delmarketplacediDressX, piattaforma internazionale di moda digitale.
“NFTGenesisJewelrypermette di vivere un’esperienza interattiva,immersiva, e di esplorare l’arte digitale con lo scopo di limitare il consumo permettendo di scegliere consapevolmente un pezzo di arte da indossare digitale o fisico”.
All’interno della piattaforma si possono trovare le tre attuali mostre attive, “JenesisJewlery”, “HeroesHexhibition” appartenenti alla FondazioneSozzani, ed “HeroesDrop1” perFoundationMktpl.
Il mondo digitale rende così possibile indossare in una realtà diversa da quella materiale, oggetti, gioielli virtuali e altro anche in momenti quotidiani della vita.Equivale ad un investimento secondoTailorVentures, esperto in sicurezza informativa il cui progetto diXbinarynasce semplicemente con l’intenzione di avvantaggiare il mondoluxury.
Tailorafferma “L’idea è partita dallo spunto diDressX, piattaforma di moda digitale con cuicollabora,la qualeche traspone nella realtà virtuale le collezioni nate nel mondo fisico. Associando questo concetto a quello di NFT, eccoXBinary: rendere indossabile, magari durante una video call, un gioiello virtuale trasformato a sua volta in un’opera d’arte digitale, perfettamente tridimensionale ma soprattutto unica”.
Walter Albini può essere definito come il protagonista indiscusso della moda italiana, il creatore del ready-to-wear, che ha plasmato un’eredità indelebile per il fashion system attraverso la sua straordinaria carriera. Nasce il 3 marzo del 1941 a Busto Arsizio come Gualtiero Angelo Albini, e dopo aver frequentato, come unico ragazzo, l’istituto d’Arte, Disegno e Moda di Torino a soli diciassette anni lavora per riviste e giornali come illustratore nelle sfilate d’alta moda da Roma a Parigi.
E proprio a Parigi, dopo aver incontrato Coco Chanel in persona e Mariuccia Mandelli, Albini torna a Milano, dove intraprende un percorso che avrebbe rivoluzionato il concetto stesso di stile, consolidando il suo ruolo di icona nel panorama internazionale della moda. Si dice che la figura dello stilista, per come la conosciamo oggi, sia nata proprio con Albini e che sia stata la stessa Anna Piaggi a coniare ed utilizzare questo termine riferendosi per la prima volta proprio a Walter Albini, l’artefice del prêt-à-porter, il primo ad inserire nelle sue sfilate la musica.
Nonostante sia un artista e uno stilista purtroppo poco conosciuto, nel mondo della moda e dell’arte in generale, la sua importanza nel contesto del “Made in Italy” è assoluta, e risiede nella sua fervente difesa dell’artigianato italiano e nella promozione di standard qualitativi elevati. Albini, collaborando con rinomate case di moda, ha contribuito a posizionare l’Italia come epicentro di eccellenza nella produzione di abbigliamento e, in particolare, la svolta distintiva nella sua carriera si è manifestata negli anni ’70 quando ha osato presentare collezioni uomo e donna nello stesso défilé. Questo gesto, così audace e progressista per quegli anni, non solo ha anticipato la tendenza all’unisex, ma ha anche ribaltato le convenzioni tradizionali, confermando la sua reputazione di innovatore e anticonformista intramontabile.
Il suo stile distintivo, caratterizzato da linee pulite, tessuti pregiati e attenzione meticolosa ai dettagli, ha definito un’estetica che va oltre le mode effimere, consolidando la sua influenza nel mondo della moda. La sua dedizione all’arte e alla cultura si è manifestata nella collaborazione con artisti contemporanei, integrando opere d’arte nelle sue creazioni e creando un connubio unico tra moda ed espressione artistica. La visione di Albini si estendeva oltre il semplice atto del creare abbigliamento, egli infatti, dando vita per la prima volta alla collaborazione tra la figura del designer e quella del produttore, abbracciò l’idea che la moda fosse un’espressione tangibile di identità e creatività e che attraverso l’unione e la cooperazione di più menti creative ciò potesse acquisire ancora più risonanza.
Questa filosofia ha contribuito a ridefinire il concetto stesso di moda, trasformandolo in un’esperienza a 360°, non più individuale e materiale, ma collettiva, visiva e sensoriale. Seguendo questo suo ideale su ciò che poteva e doveva essere la moda, Walter Albini fu il primo direttore creativo a collaborare con numerose case di moda e disegnare personalmente le loro collezioni, come per Etro con la progettazione di tessuti stampati e per Ferrè nell’ideazione di accessori.
In conclusione, Walter Albini è stato più di un semplice stilista; è stato un pioniere che ha plasmato il corso della moda italiana. La sua dedizione all’artigianato, la sua audacia nell’innovazione e la sua fusione di moda e arte hanno contribuito a definire il “Made in Italy” come sinonimo di eleganza senza tempo e qualità senza compromessi, rendendo il suo contributo una pietra miliare nella storia della moda mondiale. La sua prematura scomparsa il 31 maggio 1983, a soli quarantadue anni, non ha affievolito l’eredità di Walter Albini, al contrario, il suo impatto perdura, influenzando generazioni successive di designer che continuano a celebrare la sua audacia e innovazione.
Il 2023 sembra essersi consolidato all’interno della storia della moda come l’anno dell’esodo dei direttori creativi.
Molte di queste figure hanno infatti abbandonano i brand in cui hanno prestato servizio per anni costringendo le varie case di moda a cambi di direzione improvvisi e, talvolta, mal gestiti.
Per molti l’origine di questo fenomeno risale al Novembre del 2022, quando Alessandro Michele ha annunciato ufficialmente la sua uscita dalla maison Gucci, di cui era la guida fin dal 2015, cedendo la carica a Sabato De Sarno.
Qualche mese più tardi, a marzo 2023 vi è stata poi la dipartita totalmente a sorpresa di Jeremy Scott da Moschino, dopo dieci anni di attività, sono seguiti poi Serhat Işık e Benjamin A. Huseby da Trussardi, di cui erano alla guida creativa da due anni, di Bruno Sialelli da Lanvin, dopo quattro anni, e di Charles de Vilmorin daRochas, dopo due anni. A maggio dello stesso anno viene annunciato che Rhuigi Villaseñor avrebbe lasciato Bally e poi a settembre che Sarah Burton avrebbe abbandonato la direzione creativa di Alexander Mcqueen, venendo sostituita da Sèan McGirr, in precedenza responsabile del womenswear di Dries Van Noten.
A fronte di una simile macchia d’olio di eventi, non si può fare a meno di chiedersi, quali potrebbero essere le cause?
C’è chi ha puntato il dito contro la cultura dell’hype social, attraverso la quale alcune aziende avrebbero puntato alla visibilità mediatica dei designer a discapito della competenza e dell’esperienza. Sarebbe il caso di Ludovic De Saint Sernin, uno dei più giovani designer della scena ad aver ottenuto il maggior successo non solo grazie ai suoi capi dall’estetica genderless e anticonvenzionale, ma anche i suoi grandi numeri social, proprio grazie a questo è stato scelto da Demeulemeester per guidare il brand, ottenendo però un ben poco glorioso risultato che ha portato il designer a rinunciare alla carica nel maggio 2023, a solo sei mesi dal suo inserimento, dopo una sola stagione. Le cause sarebbero da attribuire a divergenze con il management, come riportato da Buisness of Fashion.
Sarebbe alquanto inopportuno mettere in dubbio il talento di Sant Sernin e degli altri giovani designer coinvolti in casi simili, tuttavia non occorre molto ingegno per capire che sfruttare i numeri dei social non è una buona tattica commerciale ne tantomeno creativa, dopotutto se la moda si basa anche sul concetto di apparenza, non si può pensare che essa arrivi a sostituire la competenza e l’estro creativo, oltre al fatto che lavorare per una grande maison non è come occuparsi del proprio brand indipendente, ci sono delle linee guida da seguire e una storia da rispettare.
Alcuni dei grandi marchi sembrano aver deciso che la creatività debba passare in secondo piano rispetto alla risonanza mediatica, preferendo il concetto di storytelling al concetto di storydoing.
Ma è veramente questa la soluzione migliore per l’industria?
Tralasciando gli aspetti economico-commerciali, il compito principale della moda è quello di diffondere bellezza certo, ma anche ideali che talvolta nulla hanno a che fare con l’engagement.
Alcune aziende sembrano quasi voler eclissare totalmente la figura del direttore creativo, puntando sul concetto di “spettacolo” per le sfilate, volte ad intrattenere il pubblico attraverso location suggestive ed effetti speciali, facendo quasi passare i modelli come delle comparse. Ciò che alcuni piani alti ignorano però, è che anche la più sportiva e lussuosa delle auto perde la sua utilità senza un guidatore, e questo vale anche per la moda. La direzione creativa è fondamentale al fine del proseguimento della missione del brand. Prendendo in esame il già sopracitato Gucci, che dalla dipartita di Michele ha annaspato verso direzioni non ben delineate, all’arrivo del nuovo art director, Sabato de Sarno, che ha ufficialmente debuttato per la maison milanese alla Milan Fashion Week 2023, si è potuta osservare una collezione che ha piacevolmente sorpreso, mantenendo vivo lo spirito del casa madre pur distanziandosi da quella che era l’effettiva visione di Michele.
L’esperienza, del resto, non ha nulla a che fare con likes e condivisioni, ma più con l’anonimato, e la storia lo insegna molto bene: Michele stesso aveva lavorato per anni nell’ufficio stile del brand, e De Sarno dal canto suo vanta una carriera di 13 anni nel design team di Valentino; quest’ultimo ha incoronato come art director Pierpaolo Piccioli, disegnatore di accessori per la maison dal 1999; Balenciaga ha invece scelto Demna Gvasalia, che ha militato a lungo nei team di Maison Margiela e Louis Vuitton, e la lista potrebbe continuare.
Alla luce di queste considerazioni, è errato addossare le responsabilità di una mancanza di direzione al singolo designer, e questo deve portarci a pensare che il problema sia più in alto, ai vertici, e casi come Gucci ci dimostrano che un altro fattore importante è il tempo, che ahimè, spesso l’industria non concede.
Tra le cause di questo esodo della moda, si è inoltre sollevata l’ombra delle discriminazioni e del razzismo, ombra paradossalmente sempre più chiara, se si osservano le statistiche: il 97% dei direttori creativi sarebbero infatti uomini e solo lo 0,1% delle agenzie pubblicitarie sono fondate da donne. Se poi adoperiamo come riferimento i gruppi di lavoro principali del fashion system, i dati appaiono ancora più chiari: per Kering, i designer donna di maggior rilievo all’interno dell’industria sono solo il 22%, 0% se si parla di donne non caucasiche.
Per LVHM: 0% donne, 0% di designer non caucasici per ambo i sessi.
Per Puig: 0% donne (con Harrison Reed come solo direttore creativo non binario)
Ultimo ma non per rilevanza Richemont, che dopo la dipartita di Gabriela Hearst come direttore creativo di Chloè, si colloca anch’esso nella lista dei gruppi con 0% art director donne.
Secondo il magazine AdAge inoltre, il 50% delle donne sogna di aprire un proprio business, ma solo il 12% pensa veramente di riuscirci. Accade molto spesso infatti che una volta entrate nel settore, molte giovani donne (60%) ritengano che i ritmi imposti dalle professioni creative siano incompatibili con altri piani quali la creazione di una famiglia. La privazione della possibilità di equilibrio tra lavoro e vita privata, unita alla sempre presente problematica della paygap chepone le donne in una posizione di svantaggio perennemente in crescita, e questi fattori “indottrinerebbero” poi le donne ad abbandonare gli studi o a non rientrare nel settore dopo la maternità.
La mancanza di esempi concreti di donne al potere poi, rappresenta un grande ostacolo dal punto di vista della determinazione per le donne che si trovano a voler realizzare un sogno senza però un modello di riferimento per esso.
Risulta frustrante e paradossale pensare come un ambiente da sempre inclusivo ed incoraggiante come il fashion system presenti ancora oggi il problema della mancanza di figure femminili a capo della direzione creativa, e prendendo in considerazione tutti i dati citati precedentemente non si può fare a meno di chiedersi se si stanno davvero facendo passi avanti o se ci troviamo di fronte ad una paurosa regressione.
E soprattutto, quali messaggi stanno trasmettendo i reali della moda agli studenti e alle studentesse che decidono di intraprendere il proprio percorso in questa industria? Un rapido sondaggio dimostra come le scuole di moda siano odiernamente frequentate più da ragazze che da ragazzi, quale potrebbe essere il loro destino una volta lasciati i banchi? Una giovane donna che vuole veramente arrivare ad occupare una posizione importante in questo campo come può sentirsi realmente stimolata?
Se la moda è veramente un veicolo per messaggi rivolti alla comunità, forse allora si dovrebbe pensare a come migliorare la comunicazione, e forse così, il numero dei like e il genere di appartenenza cesserebbero di avere così tanta importanza.
I fiori nascono per ricordarci quanto la pioggia sia necessaria, e sbocciano per dimostrarci l’importanza di concedersi del tempo ed essere pazienti.
Con questa analogia potremmo riassumere l’ultimo show di Gucci per la sua collezione Spring Summer 2024, presentata in occasione della Milano Fashion Week 2023 e curata da Sabato De Sarno.
La collezione s’intitola Ancora, e segna l’esordio ufficiale di De Sarno alla direzione creativa della maison Gucci, in successione di Alessandro Michele.
L’interno di un locale buio e tetro (ironia della sorte scelto proprio a causa delle condizioni atmosferiche del capoluogo lombardo in questi giorni) vede sfilare scarpe con zeppa, abiti sottoveste rifiniti in pizzo e capispalla in pelle con borse abbinate, pantaloncini sartoriali, tute corte eleganti e molto, molto rosso, da sempre colore iconico della maison. A completare la cornice il dettaglio brillante presente su numerosi capi appartenenti alla collezione che sembrano provenire direttamente dagli archivi della casa di moda.
Se vista nel complesso, la collezione presenta capi piuttosto basici, indossabili perfettamente nella quotidianità di tutti i giorni, ma nonostante questa considerazione, in essi risultano evidenti le impronte di leadership creativa che il novizio De Sarno ha lasciato nella maniera più pratica e funzionale, nonché gradevole da un punto di vista stilistico e visivo. Da quando Alessandro Michele ha annunciato la sua dipartita dalla carica di direttore creativo nel Novembre del 2022 infatti, le sfilate della casa di moda italiana non avevano convinto molto gli osservatori. Esse infatti, nonostante vi fosse lo sforzo da parte di Gucci di conquistare gli spettatori attraverso delle suggestive location, risultavano pregne dell’assenza di una guida, di un filo conduttore comune, e questo ha portato molti a definirle come gigantesche arrampicate sugli specchi, perpetrate in attesa di un salvatore che trasportasse l’azienda in una nuova era.
Ad oggi, l’attesa è stata ripagata. Si può affermare che De Sarno abbia svolto perfettamente il suo ruolo cambiando decisamente rotta dal regime precedente, caratterizzato da un perpetuo tocco di stravaganza ed esagerazione, quasi associabile al camp. Dal canto suo, il nuovo direttore creativo nella sua semplicità porta in scena abiti che colpiscono chi gli osserva anche senza l’ausilio di accessori eccentrici e/o silhouettes particolarmente voluminose, l’ambientazione stessa sembra comunicare l’intento dell’operato di risultare semplice ma comunque attento ai dettagli e al tempo stesso memorabile.
I cristalli presenti su gran parte dei capi proposti non rappresenta un tentativo di oscurare l’outfit di partenenza, ma bensì un piccolo dettaglio luminoso, gioioso ed effervescente facente parte di uno scenario più ampio, essi ricordano molto la rugiada sui fili d’erba del primo mattino, che implicano l’avvenire di un nuovo giorno, di un nuovo inizio.
La nostalgia dei tempi che furono forse non si è allontanata del tutto, ma quel che è certo è che un nuovo percorso è iniziato per il marchio fondato da Guccio Gucci, da sempre capace di stupire, affascinare ed infondere gioia e colore in chiunque lo indossi, senza mai mancare di eleganza e di ricchezza nei particolari.
Non ci resta dunque che aspettare allora la prossima sfilata per scoprire come Gucci e Sabato De Sarno saranno capaci di stupirci dopo averci già dimostrato che è sempre possibile rinascere, anche dalle piccole cose, ancora e ancora.
L’interesse che Miuccia Prada ha sempre avuto nei confronti del mondo dell’arte e del collezionismo d’arte non è mai stato un segreto, eppure questa sua passione non viene mai lasciata trapelare nelle sue collezioni di moda o nelle sue boutique a differenza invece di tanti altri famosi fashion brand.
È stata infatti la stessa Miuccia ad affermare più volte la propria volontà di tenere ben separati il mondo della moda ed il mondo dell’arte, al fine di evitare così dei connubi forse in certi casi troppo forzati e artificiosi. Tuttavia è impossibile citare il nome della maison Prada senza pensare al legame che unisce a doppio filo questa casa di moda con l’arte.
Fin dagli inizi degli anni Novanta, infatti, Miuccia Prada comincia, insieme al marito e socio in affari Patrizio Bertelli, a collezionare opere di arte contemporanea dei più importanti artisti degli anni Sessanta, dai minimalisti americani a Lucio Fontana o Damien Hirst.
È nel 1993 che i due coniugi danno vita a Milano alla Fondazione Prada, un centro dedicato all’arte e alla cultura contemporanea, con mostre d’arte permanenti ed esposizioni temporanee, concerti, mostre fotografiche, proiezioni di film e spettacoli di teatro e danza. Miuccia Prada ed il marito erano però colleghi d’affari già da qualche anno.
Nel 1978 infatti Miuccia ereditò l’azienda di famiglia che fin dalla sua fondazione, nel 1913, era specializzata in pelletteria ed accessori, ma che con il suo arrivo venne rivoluzionata radicalmente. Proprio dal 1978, infatti, venne lanciata la prima collezione di scarpe e successivamente, nel 1988, si ebbe l’importante passaggio all’abbigliamento con la prima collezione pret-à-porter per donna. Lo stile della maison riflette chiaramente l’animo e il carattere della sua creatrice, Miuccia.
Prada, come ai tempi della sua ideazione, è una maison di rottura, dallo stile iconico, minimale ma mai banale. Fin dalla prima collezione infatti è evidente come la casa di moda non sia mai scesa a compromessi con lo sfarzo e l’opulenza degli anni Ottanta, realizzando un proprio percorso o meglio un proprio stile, basato su linee minimal, con l’attenzione al dettaglio sartoriale, ai tessuti innovativi e all’utilizzo di colori scuri e neutri.
L’obiettivo è sempre stato quello di far sentire libera la donna che veste Prada, sicura nell’ essere sé stessa, senza seguire alcun tipo di stereotipo imposto dalla società. Ecco allora che in passerella la maison, e quindi Miuccia, presenta un femminismo più concettualizzato, che senza grandi manifestazioni mostra comunque una grande forza d’animo.
Tornando alla Fondazione Prada, lo spazio è suddiviso in tre sedi: la principale presso Largo Isarco 2 a Milano, nel quartiere Vigentino, si estende per circa 20.000 metri quadri, la seconda, all’interno della Galleria Vittorio Emanuele II, denominatal’Osservatorio Prada, un luogo dedicato alla fotografia e ai linguaggi visivi che sottolinea il rapporto che si viene a creare tra la fotografia, l’arte contemporanea e la società, ed infine la terza sede, dislocata a Venezia presso il Ca’ Corner della Regina.
Il critico d’arte Germano Celant, scomparso nel 2020, è stato il primo direttore artistico della Fondazione e dal 2015 anche soprintendente artistico e scientifico della stessa, per cui ha concepito e curato più di quaranta progetti espositivi.
Celant fu definito più volte, contro la sua volontà, il padre dell’arte povera, corrente artistica a cui egli stesso diede il nome e di cui creò le fondamenta. Egli diede un grande contributo alla crescita di fama della Fondazione e più volte è stato descritto come un punto fermo tra i continenti, un uomo, cioè, capace di mettere in relazione come pochi la cultura italiana con quella internazionale, europea o americana che sia.
La sua capacità di andare al di la dell’arte e di saper toccare diverse discipline fu fondamentale per la gestione di uno spazio come la Fondazione Prada, luogo in cui di fatti non vive solo l’arte nel senso più stretto di questa parola, bensì tutte le sfaccettature che essa rappresenta e contiene.
La Fondazione Prada, fortemente connessa con la città di Milano ed i suoi cittadini, non va considerata come un classico museo in cui andare ad osservare le opere d’arte in mostra, ma è un vero e proprio spazio culturale e di aggregazione, un luogo in cui la propria curiosità si risveglia in modi diversi, una realtà italiana tra le più visionarie in cui agli artisti è consentito di attuare le idee più stravaganti o irrealizzabili.
Chiunque si sia mai avvicinato all’ambiente della moda avrà almeno una volta sentito il detto secondo cui “Armani veste le mogli e Versace veste le amanti”. Risulta strano pensare che quest’espressione, tratta da un’intervista rivolta ad Armani stesso e parafrasata da Anna Wintour nei primi anni 2000, scatenò nei confronti del designer non poche polemiche (la stessa Donatella Versace si professò molto offesa da queste affermazioni, considerandole non di classe e sgarbate).
Certo, si può concordare o meno sulla pertinenza dei toni usati, ma riflettendoci, fu un’affermazione del tutto erronea? Se poniamo a confronto i due titani del made in Italy, risulta lampante anche al più inesperto in materia la differenza della definizione che le due case di moda hanno conferito al concetto di donna e femminilità durante la loro storia.
Fin dagli albori del suo marchio, Gianni Versace ha presentato al pubblico una donna aggressiva, sensuale, libera da ogni costrizione che l’eleganza d’”elite” impone al gentil sesso, (alcuni lo considerano addirittura il precursore dell’era delle top model, colui che portava in passerella anche i personaggi, non solo i prodotti). Dal canto suo invece, Armani ha sempre sdoganato nelle sue creazioni una femminilità elegante, raffinata, attenta alla presenza e alle forme, quasi fastidiosamente perfetta. Ma la proposta del marchio di re Giorgio, è davvero solo questa?
Per rispondere a questa domanda, basterà osservare “la temp des roses”, la nuova collezione privè presentata dalla maison milanese alla couture week 2024, tenutasi a Parigi.
“Rose rosse per te” cantava Massimo Ranieri negli anni 70 e così sembra fare anche Armani, che rende vermiglia la capitale francese per presentare la sua collezione autunno/inverno 2024.
Le composizioni floreali sembrano essere un tema ricorrente sulle passerelle della couture week di quest’anno, e Armani non fa eccezione. Come già viene suggerito nel titolo infatti, le rose ed i fiori trovano spazio nella composizione attraverso il ricamo sugli abiti (alcuni sfacciatamente privi di spalline), che compiono tramite le indossatrici movimenti quasi ipnotici. Trasparenza è un altro concetto chiave dello show.
Tra le diverse alternative di design e materiali proposte dal re regna sovrana una flora variopinta ricamata su tessuti jacquard e chiffon, cristalli rossi su velluto nero, pailette colorate in una pioggia cremisi che richiama all’oriente (in particolare alla cultura nipponica, sempre cara al designer). Alla palette generale non poteva ovviamente mancare un tocco di grigio brillante, da sempre un lascito cromatico di Armani.
Le modelle compiono la loro traversata con un ritmo proprio di una danza, moderato ma deciso, impostato ma libero, in un susseguirsi di silhouette da serata elegante e sensuale, che si adatta rigorosamente ai corpi.
Il colore della passione si presenta poi in tutta la sua preponderante presenza con l’ultima modella che giunge sulla scena indossando un abito che ricorda molto quello di una sposa, che però non porta con sé il tipico candore e il nervosismo che la navata può suscitare, ma anzi si dirige verso “l’altare” con fare forte e agguerrito, una donna che seduce, ma senza mai perdere la consapevolezza di se stessa e del suo potere, della sua eleganza e dignità.
Portato in passerella non è quindi il classico concetto di romanticismo, ma bensì un’interpretazione vibrante ornata di grafiche eteree con accenni dorati.
La donna presentata da Armani non è semplicemente sexy, non è limitata ad uno sgarbato concetto di oggetto. Per Re Giorgio, la donna è paragonabile ad un fiore al cui la rugiada del mattino conferisce una luce ed una brillantezza unica, senza mai sfociare nella volgarità, ma portando con sé un alone di seduzione e mistero, che risultano essere senza dubbio le parole d’ordine in questo tour nel giardino segreto dei pensieri del designer leader indiscusso della moda made in Italy.
Ritornare alle origini è sempre un toccasana per la creatività. Chi lo sa bene è Pierpaolo Piccioli che ha aperto la prima sfilata della Milano Men fashion Week 2024 con uno show ambientato a Milano, dove nel 1985 era stata presentata la prima collezione uomo di Valentino Garavani. L’evento si è svolto nell’atmosfera quieta e rinascimentale del giardino dell’università degli studi di Milano durante una regolare giornata di lezioni, dove agli studenti è stato consentito di assistere allo show direttamente dal cortile dell’istituto, mentre ascoltavano una performance del rap indie d4vd.
Oltre che un evidente omaggio ai tempi che furono, la scelta della location da parte di Piccioli rappresenta un tentativo di avvicinamento della moda alle persone comuni nonché ad un’audience decisamente più giovane, tentando così di sradicare il concetto di moda come un qualcosa rivolto solo a pochi eletti.
I modelli, tutti ragazzi alti e slanciati, si presentano in passerella con degli abiti semplici e comuni, dall’estetica fresca e delicata ma dalle silhouettes decisamente solide e mascoline, non mancano ovviamente accenni di gender fluid rappresentati da gonne, tote bag dai colori sgargianti.
La palette della collezione passa da colori neutri (bianco, nero, grigio scuro), che rimandano ad un’atmosfera urbana, a fantasie floreali che sembrano alludere anch’esse alla location dove l’atmosfera della metropoli milanese si tinge di verde grazie alle piante presenti nel cortile dell’università. Ma non potevano dicerto mancare anche capi in tinta rosa shocking che già nel 2021 erano valse al direttore creativo il titolo di “ambasciatore ufficiale” del barbiecore.
La sfilata, intitolata “The narratives”, si impegna a sdoganare l’idea di potere, successo, definito unicamente all’interno del concetto di mascolinità. Piccioli stesso infatti ha affermato che forza e potere risiedono nella libertà di ognuno di poter esprimere anche le proprie fragilità e la propria sensibilità, a prescindere dal genere di appartenenza.
Sugli abiti indossati dai modelli in passerella sono inoltre riportate citazioni del romanzo “A little life” di Hanya Yanigihara, opera d’ispirazione per il designer, pubblicata nel 2015 e ambientata in una New York sontuosa e piena di sogni e speranze, gira attorno l’importanza per i quattro protagonisti di essere se stessi.
Piccioli si serve dei temi messi in evidenza dal romanzo per porre in essere in un modello di uomo sensibile e non freddo e autoritario, dicendosi ispirato dalla vulnerabilità e dalla resilienza che anche gli uomini possono dimostrare.
Per dimostrare il suo impegno sostenere le giovani menti inoltre, Maison Valentino sponsorizzerà con delle donazioni all’università gli studenti dell’istituto milanese oltre che portare in collaborazione con spazio META (Iniziativa che promuove un servizio di recupero, vendita e noleggio di materiali provenienti da allestimenti e scenografie presso il capoluogo lombardo) delle iniziative di moda sostenibile.
Pierpaolo piccioli e il suo brand ci dimostrano ancora una volta che la moda non è solo sfarzosa ed esagerata, non è elitaria, non è snob, non è egoista, ma contiene in sé un altro aspetto, composto da arte, colori e umanità.
Perché alla fine, non è forse questo il compito della moda, contribuire allo sviluppo dell’identità e della voce di ogni essere umano?
Prada Marfa, due parole, un’icona. Chi tra gli appassionati del settore moda non ha sentito o letto almeno una volta nella propria vita queste due parole messe l’una accanto all’altra? In pochi però sanno effettivamente cosa sia questa scritta così iconica.
Prada Marfa nasce nel 2005 come istallazione artistica permanente, realizzata da due artisti scandinavi contemporanei Elmgreen e Dragset. Questa opera rappresenta effettivamente una boutique del marchio Prada posizionata nel bel mezzo del deserto del Chihuahua, a pochi chilometri dalla cittadina che si chiama Marfa, nello stato del Texas e non fu commissionata dalla maison di moda, anche se Miuccia Prada in persona ne sostenne l’idea donando agli artisti dei pezzi originali della collezione autunno inverno 2005.
Prada Marfa nasce come opera di land art, allo scopo di criticare l’estremo consumismo americano di quegli anni e l’idea iniziale era quella di farla deteriorare nel tempo abbandonata al deserto senza alcuna manutenzione, a tal fine fu costruita con materiali biodegradabili. Pochi giorni dopo l’inaugurazione però, l’opera fu vandalizzata e ciò portò gli artisti a ricostruirla in materiali solidi, dotandola di telecamere di video sorveglianza e rinunciando quindi all’intenzione originale di farla deteriorare con il passare del tempo.
Oggi questa creazione è stata dichiarata vero e proprio museo ed è diventata un’icona per il mondo della moda, attirando ogni anno presso la località desertica di Marfa migliaia di turisti e fashion addicted e facendo schizzare alle stelle i costi della vita in città, tanto da creare dei veri e propri disagi economici per chi vive lì da semplice cittadino.
“A volte, solo un secondo. Sapeva che sarebbe stato sufficiente aprire gli occhi per tornare alla sbiadita realtà senza fantasia degli adulti. Guardate al senso; le sillabe si guarderanno da sé. “Che strana sensazione!” disse Alice”
Lewis carroll, “Alice nel paese delle meraviglie”
Cosa succederebbe se tutti aprissimo gli occhi? Se tutti “guardassimo al senso”? Queste sono le domande a cui “Junk: Armadi pieni” docu-serie firmata Sky e co- prodotta da Will Media, che documenta l’impatto ambientale e sociale del fast fashion, cerca di dare risposta.
Lo scopo del documentario è far luce quello che è a tutti gli effetti il lato oscuro della moda, che non produce solo bellezza estetica e personali forme di espressione ma anche orrore e miseria, e la trama della serie, costituita da un viaggio diviso in sei puntate, ne esplora diversi aspetti.
I primi due episodi, ambientati rispettivamente in Cile e in Ghana affrontano il tema dello scarto, mostrando deserti sotto i quali la sabbia si celano tonnellate e tonnellate di vestiti usati ricordandoci ancora una volta come sotto bellissime superfici si possano celare orribili verità.
La terza puntata, ambientata in Indonesia, documenta invece l’impatto ambientale della produzione di fibre artificiali, che a poco a poco sta annientando tutta quella che è la ricchezza biologica del paese.
In Bangladesh, dove è ambientata la quarta puntata, invece si compie una riflessione sul crollo dello stabilimento tessile di Rana Plaza, incidente che portò alla morte di oltre 1000 persone, compiendo anche una riflessione sul tema della sicurezza sul lavoro (ancora oggi tema molto discusso) mentre in India, quinta puntata, si documenta come le richieste sempre più alte di produzione da parte dell’occidente abbiano irrimediabilmente portato al quasi collasso dell’industria del cotone del paese. Entrambi gli episodi offrono inoltre importanti spunti di riflessioni sull’influenza del capitalismo occidentale nei paesi del terzo mondo.
L’ultimo capitolo, che chiude inevitabilmente il cerchio ritornando in Italia, più precisamente a Vicenza, nel Veneto, mostra invece i problemi legati l’uso del Pfas, sostanza presente in molti capi Idro-repellenti che nel corso degli anni ha prodotto molto danno ambientale nonché alla salute delle persone entrate a contatto con esso, mostrandoci così anche problemi di “casa nostra” paradossalmente più ignorati.
Voce narrante di questa “epopea del sostenibile” è Matteo Ward, imprenditore, divulgatore e attivista, nonché curatore della ricerca dei contenuti scientifici presentati nella serie. Ward si autodefinisce un “Pentito di moda”, ha lavorato a lungo per Abercrombie and Fitch ed ha deciso di fare della lotta allo spreco la sua ragione di vita, fondando anche il suo brand di moda sostenibile “Wrad” e dedicandosi a numerose iniziative per promuovere l’informazione sulla moda sostenibile, tra cui anche appunto, Junk.
Per tutto il documentario Ward sì dimostra molto intraprendente addentrandosi in ogni luogo utile alla ricerca e immedesimandosi nelle storie, talvolta volte di miseria disperazione, (“La vostra spazzatura per noi è oro” gli ha confessato una donna nel mercato d’abbigliamento usato del deserto di Atacama) dei suoi intervistati immedesimandosi con essi. Esempio lampante di questo si ha nell’episodio ambientato in Ghana, quando il conduttore chiede ad una donna locale di cantare per lui la canzone che spesso si trova a cantare per i suoi figli.
I forti sentimenti per la causa di Ward emergono particolarmente nell’episodio tre, dove si reca in Bangladesh per documentare l’impatto che l’incidente avvenuto dieci anni prima e le ingiustizie perpetrate dal sistema tessile del paese, uniti all’ipocrisia dei brand occidentali nei confronti dei fornitori hanno sulla popolazione locale.
Nel corso del documentario tuttavia Ward non mette solo in luce problemi ma anche soluzioni. Colpisce particolarmente l’epilogo del primo episodio raccogliendo dei vestiti sepolti nel deserto Cileno e rivestendoci un manichino per poi riportarlo al centro di Piazza Duomo di Milano, a casa. Sul manichino sarà affisso un QR code che darà a chiunque lo scannerizzerà dei consigli per iniziare a smaltire in maniera consapevole, per iniziare, come lui stesso afferma, ad essere “parte della soluzione”.
Da un punto di vista visivo il documentario è un vero e proprio pugno nello stomaco per lo spettatore ed alterna un ottimo lavoro di regia e fotografia ad un costante crescendo di disturbo e afflizione davanti ai quali è impossibile rimanere indifferenti. Si finisce inevitabilmente per soffrire davanti alle storie di tutte le persone coinvolte nel progetto.
La visione del documentario è consigliata soprattutto a tutti coloro che ignorano quello che è a tutti gli effetti un aspetto, letteralmente nascosto sotto la sabbia, dell’industria della moda, una branca del capitalismo che sta avvelenando il pianeta.
Puntata dopo puntata si mette sempre più in evidenza quanto l’essere umano tenda a sottovalutare le sue azioni e a maltrattare quella che è di fatto la sua casa, così Ward conclude la serie affermando:
“Stiamo alzando la piramide ma rubando dalle fondamenta. Se davvero siamo gli esseri più intelligenti del pianeta, forse è l’ora di tornare alla base”
Come tutti gli anni, il Metropolitan Museum di New York si è reso il palcoscenico dell’evento da molti definito “il Super Bowl della moda”. Istituito nel 1948 dalla pubblicista Eleanor Lambert come raccolta fondi per il Costume Institute di New York, il Met Gala riesce ogni anno a riunire l’estro creativo di tutti gli stilisti e le case di moda coinvolti nel portare sulla scalinata principale del museo outfit iconici e memorabili, indossati da personaggi molto noti del panorama statunitense e internazionale.
Jeremy Pope attends The 2023 Met Gala Celebrating “Karl Lagerfeld: A Line Of Beauty” at The Metropolitan Museum of Art on May 01, 2023 in New York City. (Photo by Neilson Barnard/MG23/Getty Images for The Met Museum/Vogue)
Il tema della serata varia ad ogni edizione ed il 2023 ha visto tutte le celebrities coinvolte palesarsi con i loro abiti in un tributo a quello che è stato un vero proprio genio della moda, chiedendo agli ospiti di vestirsi ispirandosi a quelle che sono state le creazioni del designer tedesco recentemente scomparso, il tema della serata prende il nome di “Karl Lagerfeld: A Line of beauty”. Va da sé che questo ha comportato una vastissima scelta d’ispirazione creativa per i vari brand coinvolti poiché egli, ricordiamolo, è stato un ufficiale della moda in maniera così poliedrica da includere nella sua carriera la fotografia, l’arte e la direzione creativa, concedendo un grande contributo all’industria in maniera molto versatile e camaleontica lasciando la sua impronta da Chanel, Sandy, Clò, Balmain e fondando persino la sua omonima etichetta.
L’inizio si è rivelato molto promettente, con l’attore e cantante Jeremy pope che ha solcato i gradini del Metropolitan Museum indossando un lungo mantello (ad opera di Balmain) con sopra il volto proprio del designer tedesco.
Il continuo della serata ha poi visto il susseguirsi di omaggi a quella che è stata l’essenza scenica del designer: cravattini, piume, mise di diverso taglio e silhouette rigorosamente in bianco è nero (da sempre colori simbolici dell’ex direttore creativo di Chanel) ma soprattutto tanto, tanto camp che si mescola ad eleganza e raffinatezza.
In una serata del genere non potevano di certo mancare i riferimenti a colei che è stata fino alla fine il “grande amore” di Lagerfeld, la sua gatta birmana bianca Chaupette, alla quale il designer ha affidato in eredità tutto il suo patrimonio. L’ereditiera felina è stata omaggiata – pur non essendo presente fisicamente – dalla cantante Doja Cat, con un abito scintillante firmato Oscar de la Renta ed adornata in volto da un muso felino, orecchie a punta e diadema, ad opera della make up artist Malina Stearns. Il frontman dei 50 Seconds to Mars Jared Leto si è invece presentato con un costume a forma di gatto, quasi come una mascotte.
Lil Nas X, dal canto suo decisamente il più estremo di tutti, si è palesato all’evento con presenza eterea e celestiale, con indosso un trucco argentato (che ha richiesto alla sua creatrice, Pat Mcgreth più di nove ore di lavoro) costituito da più di 200000 pietre Swarowski.
I completi indossati dagli ospiti maschili dell’evento hanno rappresentato il lato più “classic” ma elegante e chic di Lagerfeld, interpretando appieno quello che era il suo personaggio, alcuni anche copiando quelli che sono stati i suoi outfit più iconici da capo a piedi, con tanto di cravattino e guanti di pelle. Dall’attore nostrano Alessandro Borghi allo spagnolo Manu Rios, che presentavo raffinatissime creazioni sartoriali rispettivamente di Gucci e dell’omonimo brand di Lagerfeld ad Asap Rocky, che con un kilt ha omaggiato il look indossato dallo stilista durante l’inchino finale ad una sua sfilata nel 2004. Degno di nota anche il “wonder boy” di Balmain, Olivier Rousteing, che ha reso omaggio ad un’iconica tote bag disegnata da Naco Paris e sfoggiata da Karl Lagerfeld nel 2009, riportante la scritta «Karl Who?»
Le ospiti femminili hanno portato in scena i look più significativi della carriera del designer, come Nicole Kidman con un abito in tulle di seta rosa, ricamato con 250 piume e oltre 3000 cristalli e paillettes d’argento, replica dello stesso da lei indossato nel 2004 per una campagna pubblicitaria Chanel n. 5 diretta da Baz Luhrmann.
Glenn Close e il designer Erdem Moralıoğlu si sono rivolti agli archivi di Chanel per il luminoso abito celeste indossato dall’attrice, ispirandosi alla collezione Autunno/Inverno 1999 realizzata da Lagerfeld per la sopracitata casa di moda.
La cantante Dua Lipa ricrea invece il Tweed look a sua volta indossato da Claudia Schiffer per la Couture collection di Chanel del 1992. Adornata al collo da una collana di diamanti Tiffany & Co. Dal valore di oltre 100 carati. Sempre attraverso il consulto degli archivi di Chanel, Gisele Bündchen indossa un vestito a sirena a strisce glitterate bianche, sovrastato da una spumosa mantella di piume, un look indossato per un editoriale scattato da Lagerfeld per un numero del 2007 di Harper’s Bazaar Korea.
L’attrice e regista americana Olivia Wilde assieme alla regista australiana-cinese, editor di Vogue China, Margaret Zhang si sono presentate alla cerimonia con abiti direttamente ispirati ad un design che Lagerfeld aveva ideato per la SS83 di Chloé. Anche se di colori diversi (bianco per la Wilde, e nero per la Zhang), i particolari di entrambi gli abiti richiamavano la forma di una chitarra dorata, in puro stile anni 80. Elle Fanning si è invece ispirata al suo shooting realizzato proprio insieme a Lagerfeld intitolato “Little black jacket book” del 2012.
Tutti gli ospiti hanno donato un grande tributo a quella che è stata la vita e la carriera di Lagerfeld, portando con loro anche ricordi personali dei loro incontri con lo stilista quando ancora era in vita.
Questa edizione del Met Gala ha dimostrato quanto il lascito artistico di Lagerfeld possa sopravvivere infinitamente nel tempo, attraverso il lavoro e le testimonianze di chi ha avuto il privilegio di conoscere da vicino questo titano della moda, elevando la sua eredità estetica ed il suo particolare estro creativo sopra a tutto, anche ai limiti della vita terrena.