Junk: Armadi Pieni. Nascondere il marcio sotto la sabbia

A volte, solo un secondo. Sapeva che sarebbe stato sufficiente aprire gli occhi per tornare alla sbiadita realtà senza fantasia degli adulti. Guardate al senso; le sillabe si guarderanno da sé. “Che strana sensazione!” disse Alice

Lewis carroll, “Alice nel paese delle meraviglie

Cosa succederebbe se tutti aprissimo gli occhi? Se tutti “guardassimo al senso”? Queste sono le domande a cui “Junk: Armadi pieni” docu-serie firmata Sky e co- prodotta da Will Media, che documenta l’impatto ambientale e sociale del fast fashion, cerca di dare risposta.

Lo scopo del documentario è far luce quello che è a tutti gli effetti il lato oscuro della moda, che non produce solo bellezza estetica e personali forme di espressione ma anche orrore e miseria, e la trama della serie, costituita da un viaggio diviso in sei puntate, ne esplora diversi aspetti.

I primi due episodi, ambientati rispettivamente in Cile e in Ghana affrontano il tema dello scarto, mostrando deserti sotto i quali la sabbia si celano tonnellate e tonnellate di vestiti usati ricordandoci ancora una volta come sotto bellissime superfici si possano celare orribili verità.

La terza puntata, ambientata in Indonesia, documenta invece l’impatto ambientale della produzione di fibre artificiali, che a poco a poco sta annientando tutta quella che è la ricchezza biologica del paese.

In Bangladesh, dove è ambientata la quarta puntata, invece si compie una riflessione sul crollo dello stabilimento tessile di Rana Plaza, incidente che portò alla morte di oltre 1000 persone, compiendo anche una riflessione sul tema della sicurezza sul lavoro (ancora oggi tema molto discusso) mentre in India, quinta puntata, si documenta come le richieste sempre più alte di produzione da parte dell’occidente abbiano irrimediabilmente portato al quasi collasso dell’industria del cotone del paese. Entrambi gli episodi offrono inoltre importanti spunti di riflessioni sull’influenza del capitalismo occidentale nei paesi del terzo mondo.

L’ultimo capitolo, che chiude inevitabilmente il cerchio ritornando in Italia, più precisamente a Vicenza, nel Veneto, mostra invece i problemi legati l’uso del Pfas, sostanza presente in molti capi Idro-repellenti che nel corso degli anni ha prodotto molto danno ambientale nonché alla salute delle persone entrate a contatto con esso, mostrandoci così anche problemi di “casa nostra” paradossalmente più ignorati.

Voce narrante di questa “epopea del sostenibile” è Matteo Ward, imprenditore, divulgatore e attivista, nonché curatore della ricerca dei contenuti scientifici presentati nella serie. Ward si autodefinisce un “Pentito di moda”, ha lavorato a lungo per Abercrombie and Fitch ed ha deciso di fare della lotta allo spreco la sua ragione di vita, fondando anche il suo brand di moda sostenibile “Wrad” e dedicandosi a numerose iniziative per promuovere l’informazione sulla moda sostenibile, tra cui anche appunto, Junk.

Per tutto il documentario Ward sì dimostra molto intraprendente addentrandosi in ogni luogo utile alla ricerca e immedesimandosi nelle storie, talvolta volte di miseria disperazione, (“La vostra spazzatura per noi è oro” gli ha confessato una donna nel mercato d’abbigliamento usato del deserto di Atacama) dei suoi intervistati immedesimandosi con essi. Esempio lampante di questo si ha nell’episodio ambientato in Ghana, quando il conduttore chiede ad una donna locale di cantare per lui la canzone che spesso si trova a cantare per i suoi figli.

I forti sentimenti per la causa di Ward emergono particolarmente nell’episodio tre, dove si reca in Bangladesh per documentare l’impatto che l’incidente avvenuto dieci anni prima e le ingiustizie perpetrate dal sistema tessile del paese, uniti all’ipocrisia dei brand occidentali nei confronti dei fornitori hanno sulla popolazione locale.

Nel corso del documentario tuttavia Ward non mette solo in luce problemi ma anche soluzioni. Colpisce particolarmente l’epilogo del primo episodio raccogliendo dei vestiti sepolti nel deserto Cileno e rivestendoci un manichino per poi riportarlo al centro di Piazza Duomo di Milano, a casa. Sul manichino sarà affisso un QR code che darà a chiunque lo scannerizzerà dei consigli per iniziare a smaltire in maniera consapevole, per iniziare, come lui stesso afferma, ad essere “parte della soluzione”.

Da un punto di vista visivo il documentario è un vero e proprio pugno nello stomaco per lo spettatore ed alterna un ottimo lavoro di regia e fotografia ad un costante crescendo di disturbo e afflizione davanti ai quali è impossibile rimanere indifferenti. Si finisce inevitabilmente per soffrire davanti alle storie di tutte le persone coinvolte nel progetto.

La visione del documentario è consigliata soprattutto a tutti coloro che ignorano quello che è a tutti gli effetti un aspetto, letteralmente nascosto sotto la sabbia, dell’industria della moda, una branca del capitalismo che sta avvelenando il pianeta.

Puntata dopo puntata si mette sempre più in evidenza quanto l’essere umano tenda a sottovalutare le sue azioni e a maltrattare quella che è di fatto la sua casa, così Ward conclude la serie affermando:

Stiamo alzando la piramide ma rubando dalle fondamenta. Se davvero siamo gli esseri più intelligenti del pianeta, forse è l’ora di tornare alla base” ­

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *