L’esodo dei direttori creativi. Una Waterloo della moda?

Il 2023 sembra essersi consolidato all’interno della storia della moda come l’anno dell’esodo dei direttori creativi.

Molte di queste figure hanno infatti abbandonano i brand in cui hanno prestato servizio per anni costringendo le varie case di moda a cambi di direzione improvvisi e, talvolta, mal gestiti.

Per molti l’origine di questo fenomeno risale al Novembre del 2022, quando Alessandro Michele ha annunciato ufficialmente la sua uscita dalla maison Gucci, di cui era la guida fin dal 2015, cedendo la carica a Sabato De Sarno.

Qualche mese più tardi, a marzo 2023 vi è stata poi la dipartita totalmente a sorpresa di Jeremy Scott da Moschino, dopo dieci anni di attività, sono seguiti poi Serhat Işık e Benjamin A. Huseby da Trussardi, di cui erano alla guida creativa da due anni, di Bruno Sialelli da Lanvin, dopo quattro anni, e di Charles de Vilmorin daRochas, dopo due anni. A maggio dello stesso anno viene annunciato che Rhuigi Villaseñor avrebbe lasciato Bally e poi a settembre che Sarah Burton avrebbe abbandonato la direzione creativa di Alexander Mcqueen, venendo sostituita da Sèan McGirr, in precedenza responsabile del womenswear di Dries Van Noten.

A fronte di una simile macchia d’olio di eventi, non si può fare a meno di chiedersi, quali potrebbero essere le cause?

C’è chi ha puntato il dito contro la cultura dell’hype social, attraverso la quale alcune aziende avrebbero puntato alla visibilità mediatica dei designer a discapito della competenza e dell’esperienza. Sarebbe il caso di Ludovic De Saint Sernin, uno dei più giovani designer della scena ad aver ottenuto il maggior successo non solo grazie ai suoi capi dall’estetica genderless e anticonvenzionale, ma anche i suoi grandi numeri social, proprio grazie a questo è stato scelto da Demeulemeester per guidare il brand, ottenendo però un ben poco glorioso risultato che ha portato il designer a rinunciare alla carica nel maggio 2023, a solo sei mesi dal suo inserimento, dopo una sola stagione. Le cause sarebbero da attribuire a divergenze con il management, come riportato da Buisness of Fashion.

Sarebbe alquanto inopportuno mettere in dubbio il talento di Sant Sernin e degli altri giovani designer coinvolti in casi simili, tuttavia non occorre molto ingegno per capire che sfruttare i numeri dei social non è una buona tattica commerciale ne tantomeno creativa, dopotutto se la moda si basa anche sul concetto di apparenza, non si può pensare che essa arrivi a sostituire la competenza e l’estro creativo, oltre al fatto che lavorare per una grande maison non è come occuparsi del proprio brand indipendente, ci sono delle linee guida da seguire e una storia da rispettare.

Alcuni dei grandi marchi sembrano aver deciso che la creatività debba passare in secondo piano rispetto alla risonanza mediatica, preferendo il concetto di storytelling al concetto di storydoing.

Ma è veramente questa la soluzione migliore per l’industria?

Tralasciando gli aspetti economico-commerciali, il compito principale della moda è quello di diffondere bellezza certo, ma anche ideali che talvolta nulla hanno a che fare con l’engagement.

Alcune aziende sembrano quasi voler eclissare totalmente la figura del direttore creativo, puntando sul concetto di “spettacolo” per le sfilate, volte ad intrattenere il pubblico attraverso location suggestive ed effetti speciali, facendo quasi passare i modelli come delle comparse. Ciò che alcuni piani alti ignorano però, è che anche la più sportiva e lussuosa delle auto perde la sua utilità senza un guidatore, e questo vale anche per la moda. La direzione creativa è fondamentale al fine del proseguimento della missione del brand. Prendendo in esame il già sopracitato Gucci, che dalla dipartita di Michele ha annaspato verso direzioni non ben delineate, all’arrivo del nuovo art director, Sabato de Sarno, che ha ufficialmente debuttato per la maison milanese alla Milan Fashion Week 2023, si è potuta osservare una collezione che ha piacevolmente sorpreso, mantenendo vivo lo spirito del casa madre pur distanziandosi da quella che era l’effettiva visione di Michele.

L’esperienza, del resto, non ha nulla a che fare con likes e condivisioni, ma più con l’anonimato, e la storia lo insegna molto bene: Michele stesso aveva lavorato per anni nell’ufficio stile del brand, e De Sarno dal canto suo vanta una carriera di 13 anni nel design team di Valentino; quest’ultimo ha incoronato come art director Pierpaolo Piccioli, disegnatore di accessori per la maison dal 1999; Balenciaga ha invece scelto Demna Gvasalia, che ha militato a lungo nei team di Maison Margiela e Louis Vuitton, e la lista potrebbe continuare.

Alla luce di queste considerazioni, è errato addossare le responsabilità di una mancanza di direzione al singolo designer, e questo deve portarci a pensare che il problema sia più in alto, ai vertici, e casi come Gucci ci dimostrano che un altro fattore importante è il tempo, che ahimè, spesso l’industria non concede.

Tra le cause di questo esodo della moda, si è inoltre sollevata l’ombra delle discriminazioni e del razzismo, ombra paradossalmente sempre più chiara, se si osservano le statistiche: il 97% dei direttori creativi sarebbero infatti uomini e solo lo 0,1% delle agenzie pubblicitarie sono fondate da donne. Se poi adoperiamo come riferimento i gruppi di lavoro principali del fashion system, i dati appaiono ancora più chiari: per Kering, i designer donna di maggior rilievo all’interno dell’industria sono solo il 22%, 0% se si parla di donne non caucasiche.

Per LVHM: 0% donne, 0% di designer non caucasici per ambo i sessi.

Per Puig: 0% donne (con Harrison Reed come solo direttore creativo non binario)

Ultimo ma non per rilevanza Richemont, che dopo la dipartita di Gabriela Hearst come direttore creativo di Chloè, si colloca anch’esso nella lista dei gruppi con 0% art director donne.

Secondo il magazine AdAge inoltre, il 50% delle donne sogna di aprire un proprio business, ma solo il 12% pensa veramente di riuscirci. Accade molto spesso infatti che una volta entrate nel settore, molte giovani donne (60%) ritengano che i ritmi imposti dalle professioni creative siano incompatibili con altri piani quali la creazione di una famiglia. La privazione della possibilità di equilibrio tra lavoro e vita privata, unita alla sempre presente problematica della paygap chepone le donne in una posizione di svantaggio perennemente in crescita, e questi fattori “indottrinerebbero” poi le donne ad abbandonare gli studi o a non rientrare nel settore dopo la maternità.

La mancanza di esempi concreti di donne al potere poi, rappresenta un grande ostacolo dal punto di vista della determinazione per le donne che si trovano a voler realizzare un sogno senza però un modello di riferimento per esso.

Risulta frustrante e paradossale pensare come un ambiente da sempre inclusivo ed incoraggiante come il fashion system presenti ancora oggi il problema della mancanza di figure femminili a capo della direzione creativa, e prendendo in considerazione tutti i dati citati precedentemente non si può fare a meno di chiedersi se si stanno davvero facendo passi avanti o se ci troviamo di fronte ad una paurosa regressione.

E soprattutto, quali messaggi stanno trasmettendo i reali della moda agli studenti e alle studentesse che decidono di intraprendere il proprio percorso in questa industria? Un rapido sondaggio dimostra come le scuole di moda siano odiernamente frequentate più da ragazze che da ragazzi, quale potrebbe essere il loro destino una volta lasciati i banchi? Una giovane donna che vuole veramente arrivare ad occupare una posizione importante in questo campo come può sentirsi realmente stimolata?

Se la moda è veramente un veicolo per messaggi rivolti alla comunità, forse allora si dovrebbe pensare a come migliorare la comunicazione, e forse così, il numero dei like e il genere di appartenenza cesserebbero di avere così tanta importanza.

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