Il landscape italiano tra arte e moda

È giusto prestare il patrimonio italiano al cosiddetto ‘Settore produttivo, culturale e creativo’? Per farla breve: se una casa cinematografica o una maison di moda chiede e ottiene di allestire il set o la sfilata a Piazza di Spagna, al Palazzo Pitti o al chiostro della Cattedrale di Monreale, è lecito autorizzarla? In punta di diritto non solo è lecito, ma sarebbe auspicabile (Ronchey e Franceschini insegnano) perché, fatta salva la tutela del sito oggetto della richiesta, è di tutta evidenza allo storico dei beni culturali quanto importante, sovente addirittura vitale, sia il contributo economico dei privati alla gestione della cosa pubblica.

Palazzo Pitti, Sala Bianca (Firenze)

Certo, fa impressione vedere una modella o il cantante di turno sdraiarsi o camminare sui mosaici della Villa del Casale a Piazza Armerina, ma gli episodi chiamano in causa un problema endemico italiano e della Regione siciliana in particolare: la competenza della classe dirigente, molto spesso improvvisata e ben al di sotto del livello di responsabilità richiesto a un conservatore del patrimonio. Vi è poi il caso increscioso della concessione a terzi del bosco stromboliano che accidentalmente prende fuoco bruciando tutta l’isola, episodio che aggiunge la variante dell’imponderabilità al difficile dialogo tra concessione e gestione che però, è bene precisare, nelle sorti di un quadro, di una statua, di un edificio monumentale, di un intero paesaggio, è un rischio sempre dietro l’angolo.

È questa la ragione per cui le movimentazioni e i trasporti delle opere d’arte sono concesse solo dietro copertura assicurativa all risks, una formula di garanzia che si estende ai fabbricati o complessi di fabbricati dichiarati d’interesse storico artistico, ma che risulterebbe quantomeno laconica se applicata alla concessione d’uso di un bosco, di una montagna, di un litorale ecc., vista la natura non risarcibile del bene ambientale violato. Questo è il doveroso antefatto.

Emilio Pucci, Monreale 1955 (Sicilia)

Ma bisogna introdurre nel contraddittorio un altro importante elemento di discussione che lega indissolubilmente il successo planetario del Made in Italy, la sua vastissima incidenza sulla comunicazione pubblicitaria del territorio italiano e delle sue bellezze, al sodalizio tra i luoghi dell’arte e i vari rami del sopradetto ‘Settore produttivo, culturale e creativo’.

La questione ha grande fascino e affonda le radici nel nazionalismo italiano tra le due guerre, quando si tentava da più parti l’emancipazione dall’egemonia francese che dominava da quattro secoli il mercato estero nel settore della produzione, pubblicità e vendita del prodotto di moda. Egemonia che fino al 1945 comprendeva anche il mercato dell’arte, facendo di Parigi il centro del mondo. La fine della Seconda guerra mondiale mutò radicalmente gli assetti internazionali: nel commercio delle opere d’arte la Ville Lumière cedeva il posto a New York e nell’ambito dell’alta moda si riaffacciava prepotentemente sulla scena l’Italia.

Palazzo Pitti, Sala Bianca 1951

È universalmente noto come il merito della nascita del Made in Italy si debba a Giovanni Battista Giorgini e all’invenzione della Sala bianca a Firenze, uno dei luoghi più eminenti del tardo settecentesco toscano. Tutta la pubblicistica di moda in quegli anni respira l’aria dei monumenti antichi italiani. Emilio Pucci, solo per fare un esempio, firmerà tre collezioni incardinate al patrimonio paesaggistico e monumentale italiano, a Capri (1950), a Monreale (1955), a Siena (1957).

Emilio Pucci, Villa Romana del Casale 1956 (Sicilia) foto di Elsa Haertter

Fotografi come Regina Relang e David Lees gireranno in  lungo e in largo la scena italiana al seguito delle case di moda per le più importanti testate giornalistiche internazionali, contribuendo fattivamente alla fortuna planetaria del Made in Italy. Un successo che trovava nella middle class statunitense il principale interlocutore commerciale e culturale. Si, culturale, perché le nuove élite americane coltivavano un vero e proprio culto classicista nei confronti del Bel Paese, considerandolo, assieme alla Grecia, un riferimento storico e stilistico ideale.  La forza dei reperti archeologici, dei monumenti e dei siti era talmente persuasiva da confermarsi in tutto il mondo, attraverso la fotografia di moda e l’immagine cinematografica (vedi le Vacanze romane del 1953), come pure attraverso i fenomeni di gossip (vedi il matrimonio di Tyron Power e Linda Christian alla Basilica di Santa Francesca Romana in Roma, in pieno complesso monumentale del Foro, nel 1949).

Nei decenni a seguire il rapporto tra il paesaggio, l’arte monumentale e il ‘Settore produttivo, culturale e creativo’ si è fatto sempre più stringente, fino alla costituzione di veri e propri brand territoriali che oggi sono estendibili ad altre importanti frange dell’economia italiana. Basti pensare al saldo rapporto tra il land e alcuni settori enogastronomici come le Langhe, il Chianti, il Brunello, l’Etna ecc.

Malgrado col passare del tempo, agli occhi del consumatore finale stia scolorendo sempre più il valore immateriale dell’opera d’arte e della natura (che nella narrazione pubblicitaria del profumo, dell’abito, dell’accessorio sono diventati poco più che uno sfondo), il loro potenziale massmediale non è venuto meno. Aspettando che ritorni una nuova ondata di classicismo umanistico rinascimentale, è auspicabile, dunque, che la concessione a terzi di un’opera d’arte, di un monumento o di un sito per scopi commerciali continui anche per il futuro, in un rapporto di reciproca convenienza, nel pieno rispetto delle norme di tutela dei beni culturali e ambientali italiani.

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