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Il regime orwelliano della moda

Le dimissioni di Donatella Versace, l’imminente passaggio di Demna Gvasalia a Gucci e l’addio
di JW Anderson da Loewe stanno scuotendo le fondamenta del panorama moda contemporaneo.
Questi eventi, avvenuti a fashion week appena conclusa, hanno aperto un dibattito acceso sul futuro
delle maison, mettendo in luce una crisi di valori in cui la creatività sembra essere sacrificata
sull’altare del marketing e delle strategie comunicative.

Negli ultimi anni, le grandi case di moda hanno progressivamente abbandonato una visione
artistica coerente, preferendo scommettere su scelte di direzione che garantiscano un immediato
impatto mediatico. La sostituzione di figure emblematiche, come quella di Donatella Versace,
rappresenta non solo una rivoluzione estetica, ma anche un cambio di paradigma in cui l’identità
del brand viene rinegoziata in un contesto globalizzato e ipercompetitivo.

Il trasferimento di Demna Gvasalia a Gucci, infatti, ha destato scalpore: dopo una stagione di creatività e
sperimentazione, il brand si prepara a intraprendere un percorso che sembra privilegiare l’effimero
clamore mediatico rispetto a una visione a lungo termine. Allo stesso modo, l’uscita di JW
Anderson da Loewe lascia presagire un riposizionamento strategico che rischia di smorzare quella
scintilla creativa che aveva reso la maison sinonimo di innovazione.

A complicare il quadro, si aggirano voci su altre poltrone vuote e designer “disoccupati”, tra cui il
caso di Pierpaolo Piccioli, la cui presenza, fino a poco tempo fa, aveva garantito continuità e
raffinatezza a un brand iconico come Valentino. Queste speculazioni fanno emergere un sistema in
cui la scelta dei protagonisti è sempre più dettata da logiche di marketing aggressivo, anziché da
una valutazione profonda del valore artistico e della capacità innovativa.

I gruppi delle maison, infatti, sembrano aver abbracciato una strategia che ricorda inquietantemente il regime orwelliano descritto in 1984: un sistema in cui ogni mossa viene orchestrata da un “Grande Fratello” del marketing, capace di monitorare, intervenire e rimodellare le identità dei brand come fossero
semplici ingranaggi di una macchina finalizzata al profitto immediato. In questo contesto, la scelta
dei direttori creativi non risponde più a un’ispirazione artistica autentica, ma a un criterio di
visibilità e viralità, dove l’apparenza ha il sopravvento sulla sostanza.

Questa metafora orwelliana diventa particolarmente calzante se si considera come, a ogni nuova
decisione, le maison sembrino più preoccupate di alimentare un’immagine di rinnovamento
continuo che di preservare un’identità radicata e coerente. In questo scenario, la moda diventa il
palcoscenico di una rappresentazione manipolata, dove il talento individuale viene spesso messo in
secondo piano rispetto a una narrazione globale, orchestrata da poteri economici e mediatici.

Il rischio, per il settore, è quello di alimentare una spirale in cui la frequente rotazione dei nomi
non solo confonde il pubblico, ma indebolisce anche il potere simbolico dei brand stessi. La
moda, un tempo espressione di individualità e creatività , rischia così di cadere in una trappola di
apparenze, dove ogni nuovo nome è semplicemente un abile stratagemma per generare buzz,
lasciando in ombra il vero valore artistico.

Il futuro delle maison dipenderà dalla capacità del settore di ritrovare un equilibrio tra innovazione
e tradizione. Solo se le grandi compagnie sapranno riscoprire l’importanza della continuità creativa
e dell’autenticità, potranno uscire da questo circolo vizioso dominato da una logica orwelliana che
minimizza il valore dell’arte in favore del profitto immediato. In questo delicato equilibrio, il
talento individuale deve essere valorizzato e integrato in una strategia che vada oltre la mera
ricerca dell’impatto mediatico.

Le prossime fashion week si prospettano come il banco di prova per un settore in fermento, in
cui ogni scelta direzionale dovrà essere giudicata non solo in base alla capacità di generare
attenzione, ma anche per il suo contributo a un’identità duratura e autentica. Solo così la moda
potrà riscattarsi da una crisi che, sebbene dolorosa, offre l’opportunità di un rinnovamento
profondo e significativo.

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La prima “Vertigineux” di Alessandro Michele per Valentino

Vertigineux, la prima sfilata Haute Couture di Alessandro Michele per Valentino, ha generato un’ondata di ricerche, commenti e critiche. L’hashtag #Vertigineux ha iniziato immediatamente a circolare sui social, mentre il film ufficiale dello show ha accumulato migliaia di visualizzazioni su YouTube in poche ore. Articoli e recensioni hanno invaso il web, segno dell’enorme attesa e della curiosità intorno a questo debutto.

Non poteva essere altrimenti: l’incontro tra la visione estetica di Michele e l’eredità di Valentino era destinato a far discutere. Tra entusiasmo e scetticismo, il risultato è una collezione che segna una nuova era per la maison, fondendo passato e futuro con una narrazione potente e stratificata.

Il titolo dello show, Vertigineux, evoca un senso di smarrimento e stupore, due emozioni che Michele ha voluto tradurre in moda. Ispirandosi agli archivi di Valentino degli anni ’60 e ’70, ma anche ‘90, ha rielaborato silhouette iconiche con un approccio filologico e visionario, bilanciando nostalgia e innovazione.

“Mi piace la polvere che circonda il marchio. È polvere preziosa”, ha dichiarato Michele, sottolineando il suo rispetto per la storia della maison e la volontà di infonderle nuova vita. Più che un semplice omaggio all’heritage, questa collezione è un viaggio nel tempo, una reinterpretazione dei codici di Valentino attraverso la lente onirica e intellettuale dello stilista romano.

Per il suo debutto, Michele ha trasformato il Palais Brongniart in un universo sospeso tra sogno e realtà. La passerella in vetro specchiato amplificava la percezione di movimento, creando un effetto surreale.

Enormi drappeggi di velluto porpora e lampadari barocchi evocavano il fasto delle corti europee e l’opulenza anni ’70 di Valentino Garavani. Il fulcro della scenografia era una grande spirale, simbolo del tempo che si avvolge su se stesso, richiamando le celebri spirali couture create da Garavani negli anni ’70. Un’allusione visiva perfetta al concetto di vertigine su cui si basa l’intera collezione.

L’Haute Couture di Valentino è sinonimo di eccellenza sartoriale, e Michele ha saputo valorizzarla con una collezione di straordinaria complessità artigianale. Volumi scultorei, ricami tridimensionali e lavorazioni minuziose hanno dimostrato la maestria degli atelier romani della maison.

Gonne a balze, cappotti in broccato, dettagli in pelliccia sintetica e calze di pizzo hanno definito un’estetica sofisticata e teatrale. I motivi floreali ricamati a mano, ispirati agli affreschi pompeiani, hanno confermato la meticolosa ricerca storica dietro ogni capo.

Michele ha reinterpretato gli abiti a colonna degli anni ’70 con nuove proporzioni e ha dato una nuova profondità al celebre rosso Valentino, rendendolo più polveroso e drammatico.

Michele ha scelto un’estetica più stratificata e barocca. Il suo lavoro sugli archivi non è stato solo stilistico, ma  concettuale: ha esplorato il pensiero dietro ogni creazione di Valentino Garavani, traducendolo in un linguaggio più narrativo e teatrale.

Le forme classiche della maison si mescolano a dettagli eccentrici, creando un equilibrio tra rigore sartoriale e immaginario visionario. Il risultato è una couture che esce dalla dimensione puramente estetica per diventare un’esperienza immersiva e intellettuale.

Come ogni rivoluzione, anche questa ha diviso il pubblico. Molti hanno elogiato la capacità di Michele di infondere nuova energia nella maison, rendendo omaggio all’heritage di Valentino Garavani senza scadere nella nostalgia, rielaborando gli abiti con una sensibilità contemporanea, dando vita a una collezione che esplora il concetto di tempo, memoria e identità.

Il suo studio storico e filosofico ha reso la sfilata non solo un esercizio di stile, ma una riflessione sulla moda come archivio vivente. Non si è limitato a reinterpretare gli archivi, ma li ha tradotti in un linguaggio nuovo, capace di emozionare e far discutere.

Il designer ha dimostrato la sua abilità nel reinventare l’eredità di Valentino con un linguaggio personale, mantenendo un forte legame con la tradizione sartoriale della casa.

Il debutto di Alessandro Michele nell’Haute Couture di Valentino con Vertigineux segna un momento significativo per la maison. Il designer ha affermato la sua abilità nel reinventare l’eredità di Valentino con un linguaggio personale, mantenendo un forte legame con la tradizione sartoriale della casa.

Una narrazione estetica e concettuale che ridefinisce il futuro della couture, e forse proprio questa vertigine di emozioni e significati è la chiave della sua visione per Valentino.

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Un periodo piacevolmente movimentato per la Francia e per la capitale Parigi! Come da tradizione dal 1973 ad oggi, si puntano i riflettori sulla Paris Fashion Week Haute Couture, a seguito
della Fashion Week Menswear e il Vogue World 2024, un evento che coniuga moda e sport lungo la linea
temporale dei decenni del ‘900.


A termine della Fashion Week Menswear sono state molteplici le sensazioni percepite: dall’addio
alle scene di Dries Van Noten (dopo 38 anni di etichetta e 129 show), all’Esercito dell’Amore di
Rick Owens, attraverso cui il designer delle tenebre ha stupito con la sua capacità di tramutare
l’oscurità che lo caratterizza in una visione di raso bianco, passando per Pharrel Williams che per
Louis Vuitton convince con il suo concetto di conoscenza e condivisione tra le diverse nazioni del
mondo, trovando ispirazione dalle arti afro-diasporiche.


L’Haute Couture di questa stagione,dal 24 al 27 giugno 2024, è stata rappresentata dai grandi nomi della macchina moda e ad aprire le danze è stato Schiaparelli.
Lo show è un chiarissimo omaggio che Daniel Roseberry fa ad Elsa Schiaparelli, andando a
sottolineare quanto già novant’anni addietro lei fosse lungimirante nel suo concetto di moda,
totalmente indifferente alle regole del mercato e strettamente legata all’arte in ogni sua forma,
sublimando il talento di lei che riusciva a tradurre l’arte stessa in abiti.


Lo straordinario lavoro di Roseberry inizia con un richiamo ad una stola di piume indossata dalla
stessa Schiaparelli negli anni ’40, in occasione di un evento: la leggenda metropolitana racconta che
fosse un riferimento all’amica ballerina Anna Pavlova, interprete del Lago dei Cigni, che invece di
ricordare un cigno delicato ed etereo, la consacra a fenice forte e indipendente.


Le uscite sono una più sorprendenti dell’altra: il lavoro di sovrapposizione di volumi, di
artigianalità e di studio delle texture sono la conferma che Roseberry realizza meticolosamente
connessioni precise tra il passato ed il presente, avvalendosi di materiali inusuali e preziosi,
portando a risultato degli show impeccabili che sfiorano e si confondono con il mondo dell’arte.


Daniel Roseberry dopo lo show, commenta: “Chi acquista Schiaparelli lo fa per collezionismo. Non è più una concezione di moda da indossare, è diventata arte a tutti gli effetti, totalmente libera da leggi di mercato ed imposizioni, quasi come se si rivivesse una nuova rivoluzione a distanza di novant’anni da quella compiuta da Elsa stessa che onorava il potere della rinascita non solo della moda, quanto di sé”.


Ammiriamo dunque, translucenze, volumi, virtuosismi, in una location appositamente pensata
quasi al buio, illuminata da chandelier fiochi, così che l’unica fonte di sguardo fosse per l’opera
d’arte, la Fenice pensata da Roseberry che vuole dare la possibilità alle donne che indossano o
collezionano Schiaparelli di rinascere più e più volte.


Daniel Roseberry non delude neanche questa volta, riesce a restare ancorato ai concetti della Maison
portando la sua estetica e la propria visione ad un equilibrio con il passato in maniera magistrale:
ogni show Schiaparelli è garanzia di bellezza ed ogni dettaglio meraviglioso si lascia solo
applaudire.

Salvador Dalì, di cui elsa era la Musa, sosteneva che nessuno sapesse pronunciare Schiaparelli, ma
tutti sapevano cosa significasse: rivive ancora, ogni volta, risorgendo dal suo passato, come una
Fenice, Schiaparelli attraverso Roseberry.

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Mary Katrantzou prima AD Bvlgari accessori

Un momento fertile per il mondo della moda con arrivals and departures. Tra i grandi marchi che stanno ridefinendo le proprie fila, anche Bvlgari annuncia una nuova posizione all’interno del proprio prestigioso organico, posizione mai aperta in 140 anni di storia della Maison.

Diventa direttore creativo del reparto accessori e pelletteria Mary Katrantzou, lungimirante designer anglo-ellenica che con Bvlgari condivide codici estetici e sincretismo.

Mary Katrantzou nasce ad Atene del 1983, in qualche modo figlia d’arte, da madre interior designer e da padre ingegnere tessile. Si forma alla Central Saint Martins College of Art and Design di Londra, e nel 2008 in occasione del suo show di laurea viene notata da quelli che diventeranno i suoi primi rivenditori (Browns, Joyce, Colette).

La collezione presentata è un’anticipazione del suo stile: il concetto base del suo lavoro è impreziosire gli abiti con stampe trompe l’oeil di gioielli oversize, su abiti in jersey. Le percezioni del concreto vengono completamente alterate dalle sue proposte: gioielli impossibili, importanti, stampati in maniera assolutamente iperreale su seta.

Grazie alla sua intuizione ed alla sperimentazione di tecniche di stampa, viene definita la Regina. Si ispira all’haute couture, la rielabora, la rende innovativa, affermando che “la stampa può essere definitiva come un taglio o un drappeggio e consente alla donna di filtrare la bellezza che si trova nel design. Le nostre collezioni creano una simbiosi tra il mondo della tecnologia digitale e l’artigianato tradizionale, aprendo un vasto spettro di possibilità. Posso creare possibilità dall’impossibile, surrealismo dal realismo, ed entrambi viceversa”. 

Il focus dei suoi progetti è la sperimentazione attraverso cui mescola artigianato e tecnologie, creazioni dall’estetica contrastante, ma fortemente femminile ed audace.

Numerosi i riconoscimenti negli anni, premi come lo Swiss Textiles Award, il Designer of the Decade o il British Fashion Award for Emerging Talent, per citarne alcuni, così come le collaborazioni in capsule per Victoria’s Secret, Longchamp, Moncler, Topshop e Adidas Originals.

Ha disegnato i costumi per diversi balletti (NYC Ballet, Opera di Parigi, Balletto dell’Opera Nazionale Greca) e nella sua giovane carriera può vantare esposizioni al Metropolitan Museum of Art di New York e al Victoria & Albert Museum di Londra.

Un fresco talento di quelli che non si incontrano spesso e su cui Bvlgari investe anche prima di oggi. Nel 2019 la collezione Katrantzou SS 2020 “Wisdom Begins in Wonder” sfila nel Tempio di Poseidone, in occasione della celebrazione del trentesimo anniversario dell’associazione ELPIDA, a sostegno dei bambini malati di cancro.

Gli accessori scelti, per impreziosire i suoi abiti, sono proprio di Bvlgari, collezione Heritage. Da quel momento iniziano le collaborazioni con la Maison di Alta Gioielleria: disegna un’edizione speciale del flacone di Bvlgari Omnia ed interviene nella capsule “Serpenti” con la rielaborazione di borse ed accessori tessili.

Jean-Christophe Babin, CEO di Bvlgari, ha commentato con orgoglio la nomina di Mary Katrantzou, dicendosi certo che il rapporto tra la Maison e la designer porterà a grandi successi, “Mary condivide con Bvlgari non solo le origini greche, ma soprattutto la ricerca dell’eccellenza nella scelta dei materiali e nel modo in cui vengono trasformati con un’enfasi particolare sull’artigianalità, oltre ad un amore appassionato per i colori.”

La prima collezione Katrantzou chez Bvlgari sarà disponibile a partire da agosto 2024 nelle boutique della Maison. Nel frattempo, potremmo deliziarci del lavoro di Mary in occasione delle prossime Olimpiadidi Parigi del 26 luglio 2024, per cui la designer ha progettato i costumi che vestiranno gli atleti durante la cerimonia di accensione e consegna della torcia olimpica. Un vero tripudio di ellenicità!

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PPPiccioli lascia casa Valentino

Elaborare un pensiero richiede tempo, valutazioni, delle volte anche studio. Nell’immediatezza di un avvenimento tutte le elucubrazioni sono fini a sé stesse. Arriverà il momento del pensiero logico, della critica disinteressata, dell’analisi storica, ma oggi è tempo solo di ringraziare.

È il 22 marzo 2024, un carosello di foto su Instagram si apre con l’iconica immagine di Pierpaolo Piccioli circondato dai preziosissimi artigiani di Maison Valentino, durante i saluti al termine dello show Château de Chantilly Haute Couture FW 23-24. Al primo sguardo è impossibile negarsi dal lasciare un like, perché quella immagine ha segnato moltissimo la cultura moderna. Un po’ come quando si ha davanti il David: è infattibile scorrere avanti senza prendersi qualche minuto per ammirarne la meraviglia.

Il carosello prosegue con una serie di immagini che, come la “divisa” del suo team a cui Piccioli ci ha abituato nelle sue apparizioni pubbliche, rimarranno impresse negli annali di moda, dicendo così addio a Maison Valentino. Non succede spesso, ma neanche del tutto raramente: l’ultimo vero addio a cui non eravamo preparati risale al novembre 2022 con Alessandro Michele che lascia casa Gucci.

È Piccioli stesso a comunicarlo dal suo profilo, con una cura ed una gentilezza spiazzante, lasciando un pensiero di stima non solo a Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti, ma a tutti i professionisti con cui ha lavorato in 25 anni. Ne nomina alcuni, forse potendo avrebbe nominato tutti, ed è lui che ringrazia loro per le esperienze e la gioia.

Dagli show alle intuizioni, dalle foto amatoriali alle campagne, dagli applausi del pubblico agli abbracci con la famiglia: questo non vuole essere un elenco celebrativo dello straordinario lavoro di Piccioli, questo testo vuole dare immagine al sentimento disorientato che questa decisione ha procurato nel mondo della moda.

L’addio di Pierpaolo Piccioli è un saluto consapevole, composto ma allo stesso tempo dal fortissimo impatto emotivo, come una Black Tie.

È la celebrazione dell’individualità nella sfumatura di un Pink PP. È la forza, nella sua accezione più profonda, ricerca ed accettazione, comprensione ed esaltazione di Le Noir come nuovo spazio visivo non più privativo di luce, ma totalizzante ed accogliente.

L’addio di Pierpaolo Piccioli a Maison Valentino è riuscito ad essere magico perché non percepito con rabbia, con dissenso, con supposizioni ma spontaneo, diretto, quasi immune alle critiche, esattamente come un ragazzo che si diverte a coltivare la propria passione e l’immenso talento.

“Giovane e libero”, si dice. Nessuno saprebbe descriverlo in maniera più opportuna.

La fine è necessaria e l’inizio inevitabile. Nel mentre, solo applausi meritati e la realizzazione di aver goduto per 25 anni del lavoro di un giovane e libero artista che ha ridefinito e scritto nuove regole e combinazioni della moda contemporanea, a cui bisogna guardare con gratitudine nell’attesa di altra magia.

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Iris Apfel: color icon

Cosa ci fa una bambina con degli scampoli di stoffa? Quanto può diventare straordinario il più semplice dei giochi come vestire le bambole quando si diventa grandi?

Questa è la storia di, una bambina newyorkese che giocava con scampoli di stoffa, visitava la boutique di sua madre ed imparava che la monocromia è solo una delle tante scelte possibili, ma non la più eccezionale. Stiamo parlando di Iris Apfel!

Crescendo, studia storia all’Università di New York, decidendo solo successivamente di intraprendere la carriera di giornalismo in moda tanto da partecipare ad un concorso per entrare a far parte della redazione di Vogue Paris. Storicamente era in corso la Seconda guerra mondiale e gli uffici di Vogue dovettero chiudere proprio in quel momento, bloccando temporaneamente i sogni di Iris.

Tuttavia il fuoco misto di perseveranza ed ottimismo le bruciava in petto, dalla quale darà vita all’incendio della sua iconicità: prima copista al Woman’s WearDaily, poi collaboratrice dell’illustratore Robert Goodman, poi ancora responsabile di eventi per un complesso alberghiero, ma con ancora troppo pochi capi a disposizione per poter vantare un armadio variopinto.

In quel momento nasce quello che sarà il suo tratto distintivo – il mix and match – che funzionando perfettamente con gli abiti applicherà anche nella sua carriera da arredatrice. Si ritrova a scoprire i magazzini Loehmann’s, in cui si potevano trovare capi griffati a prezzi stracciatissimi, dove ricevette il commento che la distinse nel tempo: “Non sei una bellezza, ma hai stile!”

In un’intervista dichiarò di non essere una grande fan di Coco Chanel: da un lato vi era Mademoiselle Chanel che proponeva abiti lineari, pratici, osannava il nero, dall’altro Iris Apfel che si divertiva a combinare tessuti, trame, accessori dalle misure sproporzionate rispetto alla sua figura esile e minuta. 

Ad un certo punto della sua vita, Iris Apfel si innamora dell’uomo da cui prenderà il cognome e alla quale sarà legata sentimentalmente, artisticamente e imprenditorialmente per sessantasette anni. Insieme fonderanno la Old Wide Weavers, industria tessile che si occuperà niente meno che di curare l’interior design della Casa Bianca.

Variopinta, eccentrica, geniale, coperta da occhiali tondi, sorridente, amata tanto da ricevere riconoscimenti di ogni genere come una mostra dei suoi abiti e accessori protagonisti al MoMa di New York, la nascita di un documentario dedicato alla sua vita, una Barbie a sua immagine e somiglianza e ancora una cattedra all’Università di Austin.

Iris Apfel nel tempo è riuscita a stupire con curiosità, disponibilità e allegria chiunque incontrasse, così da diventare l’icona per eccellenza di tutte le persone del mondo che hanno apprezzato la sua filosofia: more is more, less is a bore.

Quindi, cosa ci fa una bambina con degli scampoli di stoffa? Chiedetelo a tutti i bambini che scoprono la bellezza dell’arte in ogni sua forma, la risposta è semplice: giocare.

E cosa fa quella bambina quando diventa Iris Apfel? Continua a giocare, sperimentare, divertirsi. Questa è la storia di come una signorina newyorkese è diventata un’icona di stile mondiale, e di come il mondo della moda e dell’arte piange la sua dipartita dello scorso 1° marzo 2024.

Con i suoi 102 anni ed un sorriso enorme quasi quanto i suoi occhiali, ci ha insegnato che mai bisogna fermarsi ad aspettare che le cose accadano, ma bisogna credere nelle proprie passioni, alzarsi ed andare a prendere ciò che ci spetta perché “Se sei pettinata bene e indossi un bel paio di scarpe te la puoi cavare in ogni situazione”.

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Fiori d’inverno di Giorgio Armani

Conclusa la Milano Fashion Week Fall 2024 Ready to Wear, abbiamo applaudito, siamo rimasti incantanti, a volte abbiamo storto il naso, ma come in ogni Settimana della Moda la carne al fuoco è stata saziante per gli addetti ai lavori e gli appassionati.

È stato presentato un esposto di richiesta alla Camera Moda di Milano, in cui viene chiesto di prolungare la durata della Fashion Week ai fini comunicativi dei designer che si vedono costretti a movimenti troppo fugaci per l’importanza del messaggio che vogliono trasmettere con il proprio lavoro.

Questa richiesta è stata proposta da Giorgio Armani. Chiude lui la Settimana della Moda, riconfermandosi al di sopra di ogni dinamica di marketing fine a se stessa.

Non esistono i trends, non esistono le tendenze, esiste la visione pura ed essenziale della realtà: Armani, come sempre – ed ogni volta in modo eccellente – guarda al viso delle donne e veste i loro corpi non con il fine ultimo di un red carpet ma con l’intenzione di una passeggiata in centro a Milano, dove si dice stufo di vedere donne in mutande (forse richiamando proprio quel trend che vede culottes esasperate in ogni salsa su moltissime passerelle?).

“Fiori d’Inverno”, il nome della collezione Fall 2024 di Giorgio Armani, uno straordinario scenario bucolico in chiave invernale, che trae ispirazione dalla natura con il significato di bellezza eterea.

I fiori, quindi, sono i protagonisti assoluti, ricamati, stampati, intarsiati, sviluppati su lana, raso o velluto; la collezione è poetica, coerente con lo stile Armani, pulita, dalle silhouettes equilibrate, con una palette colori profonda ed avvolgente tipica di un inverno gelido.

Se da un lato vediamo creazioni perfette per eventi mondani, dall’altro incontriamo cargo, soprabiti e tonalità greige, look pensati per il giorno, efficaci ma allo stesso tempo sublimati dalla costante presenza dei fiori.

Apre la sfilata una modella d’eccezione per il panorama odierno: Gina di Bernardo, volto tra i preferiti di Armani per le sue campagne degli Anni ’80-’90. A tal proposito, segnaliamo la mostra fotografica “Aldo Fallai per Giorgio Armani, 1977-2021”, presso l’Armani Silos a Milano, fino all’11 agosto 2024 sarà possibile ammirare parte delle campagne figlie del sodalizio pluriennale d’autore Armani-Fallai.

Tornando allo show, è come assistere ad uno studio vero e proprio della realtà che ci circonda, la natura è il primo e ultimo senso dell’esistenza.

Delicata, elegante, sobria, presente senza esaltazioni, sussurrata; il simbolismo dei fiori fa da sinfonia alla melodia Armani, di cui il Re diventa sia direttore d’orchestra che sociologo. 

Giorgio Armani guarda alla realtà con analitico distacco, ripudia la moda quando essa diventa solo moda, la celebra nell’identità di compagna giornaliera degli individui.

Un buon regnante è giusto, equilibrato, guarda agli interessi del popolo, tiene alto l’onore della sua corona; Re Giorgio si riconferma sempre al di sopra di ogni aspettativa, interessato sul serio ai corpi che vestiranno le sue creazioni, conscio che ogni corpo è una persona e da tale va rispettata nella cosa più importante che possiede: la normalità, troppo spesso banalizzata negli ultimi tempi.

In un mondo moda-marketing che cerca di stupire con architetture frenetiche e provocazioni costanti, Armani riesce ad ammaliarci tutti con il più prezioso dei doni: l’identità.

I Fiori d’Inverno nascono in condizioni atmosferiche difficili, ma sanno essere di una bellezza e di una forza inimitabili, in condizioni di merch and trends a tratti soffocanti, riescono ad essere il vero giardino di splendore della Milano Fashion Week.

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La moda attende Alessandro Michele

Ciò che è stato detto, letto e scritto su Alessandro Michele sembra essere solo l’inizio di una straordinaria storia nel mondo della moda. Dal momento in cui questo giovane romano è esploso sulla scena, il suo percorso è stato un susseguirsi di apprezzamenti, critiche, provocazioni e supposizioni.

Classe 1972, il sogno di diventare scenografo, che potrebbe aver realizzato in un certo senso grazie alla sua visione unica della moda, il percorso di apprendistato accanto a figure come Karl Lagerfeld, Silvia Venturini Fendi e Frida Giannini.

Nel 2015, Marco Bizzarri gli offre la direzione creativa di Gucci e con soli sette giorni di tempo, Michele presenta una collezione uomo che anticipa l’estetica unica che sarebbe divenuta la sua firma: genderless, eccentrica, esasperata ed eterea.

Il successo arriva in rapida successione, con stimoli creativi, presenze su red carpet e amicizie nello show-bitz. Michele stesso è circondato dall’aura tipica di un’opera d’arte, dalle sue apparizioni apparentemente trasandate a fine sfilata, in netto contrasto con le sue creazioni, alle comparse pubbliche in cui si trasformava.

Ricordiamo il Met Gala del 2022, nelle vesti di gemello di Jared Leto, uno dei suoi ambassadors, o il Met Gala del 2019, in cui indossava abiti di porpora olografica al fianco di Harry Styles, il perfetto esempio della riuscita estetica Gucci-Michele.

La passione per la gioielleria, ereditata dalla nonna e l’espressionismo social silente contribuiscono a creare un’immagine di Michele come qualcosa che va oltre il semplice personaggio pubblico. Le sue stories sui social sono criptiche, raffigurano dettagli d’arte e paesaggi antichi, offrendo uno sguardo personale che va oltre l’apparenza.

Nel 2022, Michele annuncia la fine della sua collaborazione con Gucci. I suoi seguaci, quasi come adoratori, hanno vissuto un lutto e speculato sulla fine di un’era per Gucci, sperando in una nuova direzione creativa di Michele in una Maison che gli avrebbe concesso ancora più libertà espressiva. Aspetto fondamentale: la moda è anche business, ed il Gruppo Kering ha scelto una visione divergente da quella di Michele.

“Il rapporto più intimo che abbiamo con un oggetto” – così Michele descrive la moda, spogliandola di canoni e pregiudizi. La sua visione disinteressata al mercato della moda e la scelta di seguire il proprio gusto personale hanno trasformato il mondo moda-marketing in un’arte autentica.

La sua filosofia artistica va oltre il design, abbracciando la passione per l’arte, la musica e la letteratura: Michele fa della sua espressione stilistica un’opera d’arte, invitando al disordine della libertà in un mondo che cerca l’ordine e la minimalità estetica.

Le radici sono nell’infanzia, nell’idea che durante il carnevale tutto sia possibile. Michele invita a vivere la libertà fanciullesca anche nell’età adulta, sfidando le convenzioni con le sue creazioni. “Utilizzo l’ordinario per addizionarlo ad un elemento solo che fa diventare stranissimo l’ordinario”, afferma, mostrando sovrapposizioni, colori e imperfezioni nelle sue collezioni, trasformando ogni sfilata in uno spettacolo teatrale incantevole.

Si brama un suo ritorno sulle passerelle, chi lo sogna da Chanel, chi lo immagina in veste di direttore creativo di Bulgari, chi spera in un exploit indipendente, ma Alessandro Michele è molto di più: è un genio che ha tanto da dire e raccontare, una sorta di leggenda vivente che paradossalmente potrebbe insegnare la moda (la vita, come sostiene in più occasioni – “la moda si è ripresentata a me ed ha detto: piacere, sono la vita”) anche seduto al tavolino di un bar in piazza.

Non si può pensare ad Alessandro Michele senza meravigliarsi: il più grande regalo che ha fatto agli individui, attraverso le sue creazioni, è stato abbattere il concetto di binarismo ed elevare quello di corpo come territorio di liberà.