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Il regime orwelliano della moda

Le dimissioni di Donatella Versace, l’imminente passaggio di Demna Gvasalia a Gucci e l’addio
di JW Anderson da Loewe stanno scuotendo le fondamenta del panorama moda contemporaneo.
Questi eventi, avvenuti a fashion week appena conclusa, hanno aperto un dibattito acceso sul futuro
delle maison, mettendo in luce una crisi di valori in cui la creatività sembra essere sacrificata
sull’altare del marketing e delle strategie comunicative.

Negli ultimi anni, le grandi case di moda hanno progressivamente abbandonato una visione
artistica coerente, preferendo scommettere su scelte di direzione che garantiscano un immediato
impatto mediatico. La sostituzione di figure emblematiche, come quella di Donatella Versace,
rappresenta non solo una rivoluzione estetica, ma anche un cambio di paradigma in cui l’identità
del brand viene rinegoziata in un contesto globalizzato e ipercompetitivo.

Il trasferimento di Demna Gvasalia a Gucci, infatti, ha destato scalpore: dopo una stagione di creatività e
sperimentazione, il brand si prepara a intraprendere un percorso che sembra privilegiare l’effimero
clamore mediatico rispetto a una visione a lungo termine. Allo stesso modo, l’uscita di JW
Anderson da Loewe lascia presagire un riposizionamento strategico che rischia di smorzare quella
scintilla creativa che aveva reso la maison sinonimo di innovazione.

A complicare il quadro, si aggirano voci su altre poltrone vuote e designer “disoccupati”, tra cui il
caso di Pierpaolo Piccioli, la cui presenza, fino a poco tempo fa, aveva garantito continuità e
raffinatezza a un brand iconico come Valentino. Queste speculazioni fanno emergere un sistema in
cui la scelta dei protagonisti è sempre più dettata da logiche di marketing aggressivo, anziché da
una valutazione profonda del valore artistico e della capacità innovativa.

I gruppi delle maison, infatti, sembrano aver abbracciato una strategia che ricorda inquietantemente il regime orwelliano descritto in 1984: un sistema in cui ogni mossa viene orchestrata da un “Grande Fratello” del marketing, capace di monitorare, intervenire e rimodellare le identità dei brand come fossero
semplici ingranaggi di una macchina finalizzata al profitto immediato. In questo contesto, la scelta
dei direttori creativi non risponde più a un’ispirazione artistica autentica, ma a un criterio di
visibilità e viralità, dove l’apparenza ha il sopravvento sulla sostanza.

Questa metafora orwelliana diventa particolarmente calzante se si considera come, a ogni nuova
decisione, le maison sembrino più preoccupate di alimentare un’immagine di rinnovamento
continuo che di preservare un’identità radicata e coerente. In questo scenario, la moda diventa il
palcoscenico di una rappresentazione manipolata, dove il talento individuale viene spesso messo in
secondo piano rispetto a una narrazione globale, orchestrata da poteri economici e mediatici.

Il rischio, per il settore, è quello di alimentare una spirale in cui la frequente rotazione dei nomi
non solo confonde il pubblico, ma indebolisce anche il potere simbolico dei brand stessi. La
moda, un tempo espressione di individualità e creatività , rischia così di cadere in una trappola di
apparenze, dove ogni nuovo nome è semplicemente un abile stratagemma per generare buzz,
lasciando in ombra il vero valore artistico.

Il futuro delle maison dipenderà dalla capacità del settore di ritrovare un equilibrio tra innovazione
e tradizione. Solo se le grandi compagnie sapranno riscoprire l’importanza della continuità creativa
e dell’autenticità, potranno uscire da questo circolo vizioso dominato da una logica orwelliana che
minimizza il valore dell’arte in favore del profitto immediato. In questo delicato equilibrio, il
talento individuale deve essere valorizzato e integrato in una strategia che vada oltre la mera
ricerca dell’impatto mediatico.

Le prossime fashion week si prospettano come il banco di prova per un settore in fermento, in
cui ogni scelta direzionale dovrà essere giudicata non solo in base alla capacità di generare
attenzione, ma anche per il suo contributo a un’identità duratura e autentica. Solo così la moda
potrà riscattarsi da una crisi che, sebbene dolorosa, offre l’opportunità di un rinnovamento
profondo e significativo.

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La prima “Vertigineux” di Alessandro Michele per Valentino

Vertigineux, la prima sfilata Haute Couture di Alessandro Michele per Valentino, ha generato un’ondata di ricerche, commenti e critiche. L’hashtag #Vertigineux ha iniziato immediatamente a circolare sui social, mentre il film ufficiale dello show ha accumulato migliaia di visualizzazioni su YouTube in poche ore. Articoli e recensioni hanno invaso il web, segno dell’enorme attesa e della curiosità intorno a questo debutto.

Non poteva essere altrimenti: l’incontro tra la visione estetica di Michele e l’eredità di Valentino era destinato a far discutere. Tra entusiasmo e scetticismo, il risultato è una collezione che segna una nuova era per la maison, fondendo passato e futuro con una narrazione potente e stratificata.

Il titolo dello show, Vertigineux, evoca un senso di smarrimento e stupore, due emozioni che Michele ha voluto tradurre in moda. Ispirandosi agli archivi di Valentino degli anni ’60 e ’70, ma anche ‘90, ha rielaborato silhouette iconiche con un approccio filologico e visionario, bilanciando nostalgia e innovazione.

“Mi piace la polvere che circonda il marchio. È polvere preziosa”, ha dichiarato Michele, sottolineando il suo rispetto per la storia della maison e la volontà di infonderle nuova vita. Più che un semplice omaggio all’heritage, questa collezione è un viaggio nel tempo, una reinterpretazione dei codici di Valentino attraverso la lente onirica e intellettuale dello stilista romano.

Per il suo debutto, Michele ha trasformato il Palais Brongniart in un universo sospeso tra sogno e realtà. La passerella in vetro specchiato amplificava la percezione di movimento, creando un effetto surreale.

Enormi drappeggi di velluto porpora e lampadari barocchi evocavano il fasto delle corti europee e l’opulenza anni ’70 di Valentino Garavani. Il fulcro della scenografia era una grande spirale, simbolo del tempo che si avvolge su se stesso, richiamando le celebri spirali couture create da Garavani negli anni ’70. Un’allusione visiva perfetta al concetto di vertigine su cui si basa l’intera collezione.

L’Haute Couture di Valentino è sinonimo di eccellenza sartoriale, e Michele ha saputo valorizzarla con una collezione di straordinaria complessità artigianale. Volumi scultorei, ricami tridimensionali e lavorazioni minuziose hanno dimostrato la maestria degli atelier romani della maison.

Gonne a balze, cappotti in broccato, dettagli in pelliccia sintetica e calze di pizzo hanno definito un’estetica sofisticata e teatrale. I motivi floreali ricamati a mano, ispirati agli affreschi pompeiani, hanno confermato la meticolosa ricerca storica dietro ogni capo.

Michele ha reinterpretato gli abiti a colonna degli anni ’70 con nuove proporzioni e ha dato una nuova profondità al celebre rosso Valentino, rendendolo più polveroso e drammatico.

Michele ha scelto un’estetica più stratificata e barocca. Il suo lavoro sugli archivi non è stato solo stilistico, ma  concettuale: ha esplorato il pensiero dietro ogni creazione di Valentino Garavani, traducendolo in un linguaggio più narrativo e teatrale.

Le forme classiche della maison si mescolano a dettagli eccentrici, creando un equilibrio tra rigore sartoriale e immaginario visionario. Il risultato è una couture che esce dalla dimensione puramente estetica per diventare un’esperienza immersiva e intellettuale.

Come ogni rivoluzione, anche questa ha diviso il pubblico. Molti hanno elogiato la capacità di Michele di infondere nuova energia nella maison, rendendo omaggio all’heritage di Valentino Garavani senza scadere nella nostalgia, rielaborando gli abiti con una sensibilità contemporanea, dando vita a una collezione che esplora il concetto di tempo, memoria e identità.

Il suo studio storico e filosofico ha reso la sfilata non solo un esercizio di stile, ma una riflessione sulla moda come archivio vivente. Non si è limitato a reinterpretare gli archivi, ma li ha tradotti in un linguaggio nuovo, capace di emozionare e far discutere.

Il designer ha dimostrato la sua abilità nel reinventare l’eredità di Valentino con un linguaggio personale, mantenendo un forte legame con la tradizione sartoriale della casa.

Il debutto di Alessandro Michele nell’Haute Couture di Valentino con Vertigineux segna un momento significativo per la maison. Il designer ha affermato la sua abilità nel reinventare l’eredità di Valentino con un linguaggio personale, mantenendo un forte legame con la tradizione sartoriale della casa.

Una narrazione estetica e concettuale che ridefinisce il futuro della couture, e forse proprio questa vertigine di emozioni e significati è la chiave della sua visione per Valentino.

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La moda alla Triennale di Milano

La triennale di Milano ha recentemente inserito nel suo organico un reparto interamente dedicato alla moda, e come prima mossa, l’allestimento di “Forme Mobili”, esposizione che unisce i pezzi conosci di maison come Capucci, Krizia, Giorgio Armani, Vivienne Westwood, Versace, Alaïa e Comme des Garçons, e locata all’interno del museo del design italiano, mette già bene in chiaro come quest’iniziativa di ponga come obbiettivo il far conoscere la grande pubblico l’intrinseca connessione che lega le due discipline del
design a quella del fashion system.

L’obiettivo del Dipartimento pare quindi essere quello di sviluppare e mettere in connessione la moda con altri ambiti culturali, evitando il rischio di una visione statica e museale del settore.

Custode di questo dialogo tra passato e futuro è Luca Stoppini, volto non certo nuovo al mondo della moda nostrana. Già rinomato nell’ambito direzione creativa e dell’editoria in ambito moda infatti, nel 1991, ha fondato a Milano il proprio studio di consulenza creativa, collaborando con prestigiosi brand internazionali, case editrici, musei e teatri.

Tra i suoi clienti figurano nomi come Dolce & Gabbana, Moncler, Chanel e Giorgio Armani. La sua carriera, iniziata nel 1981 presso Condé Nast Italia, è proseguita poi con “Vanity”, per poi collezionare note di merito come direttore creativo di Vogue Italia (1991) e Icon (2020).

La sua influenza nel settore è riconosciuta a livello globale, con menzioni in pubblicazioni come “The Business of Fashion”. Insomma, questo piovere del fashion system, si propone di esplorare la moda come terreno di intersezione con altre espressioni culturali contemporanee.

Ma cosa Significa l’apertura del Dipartimento Moda alla Triennale di Milano per il Futuro della cultura Italiana? Perché dedicare uno spazio esclusivo alla moda in una delle più prestigiose istituzioni di design?

La moda, da sempre pilastro della cultura e dell’economia del bel paese. Tuttavia, essa mancava di un luogo istituzionale dove fosse esplorata come fenomeno culturale complesso, al pari del design, dell’architettura o dell’arte. Il neonato dipartimento riempirebbe così questa lacuna, riconoscendo ufficialmente la moda come disciplina interdisciplinare che incarna creatività, innovazione, artigianalità e dialogo con il contesto storico e sociale.

Come Comme des Garçons trova un parallelo nelle linee minimaliste di un pezzo di design industriale, allo stesso modo, un capo di Capucci dialoga visivamente con una scultura di design, trasformando l’esperienza di chi osserva in una riflessione sulle forme, i materiali e l’innovazione.

Alla base di questa nuova visione c’è il centro studi “Cuore”, un archivio e laboratorio di ricerca che valorizza i magazzini della Triennale. Questo spazio funge da hub per lo studio e l’acquisizione di capi iconici attraverso donazioni, comodati d’uso e acquisizioni mirate.

Finora, oltre una dozzina di capi sono già stati integrati nella collezione, con l’obiettivo di costruire una narrazione visiva che rifletta sia la tradizione che l’evoluzione della moda.

Questa iniziativa mira a sfidare la percezione tradizionale della moda come un’espressione effimera, posizionandola invece come una disciplina capace di influenzare e dialogare con le altre forme d’arte. Non si tratta di conservare abiti per fini nostalgici, ma di studiarli e utilizzarli per tracciare i cambiamenti culturali e sociali che scandiscono il nostro tempo.

Tuttavia, il successo del Dipartimento Moda dipenderà dalla sua capacità di innovare e di rappresentare tutte le voci del settore. Sarà cruciale esplorare non solo le grandi maison e i nomi più noti, ma anche i designer emergenti, le sottoculture e i movimenti di moda sostenibile che stanno ridefinendo il futuro del settore.

L’inclusività dovrà essere al centro delle attività del Dipartimento, garantendo che tutte le sfaccettature della moda – dalle tradizioni artigianali locali alle tecnologie più avanzate – siano rappresentate. Inoltre, sarà fondamentale utilizzare questa piattaforma per educare il pubblico sul valore della moda come espressione culturale e strumento di cambiamento.

Il Dipartimento Moda della Triennale di Milano punta ad ergersi come un laboratorio vivente, un crocevia dove la moda si spoglia della sua transitorietà per farsi ponte verso l’eterno. Ogni mostra, ogni capo acquisito, ogni collaborazione sarà un tassello che senza dubbio contribuirà ad aggiunge profondità a una narrazione ancora tutta da scrivere.

Non si può fare a meno di chiedersi, quale sarà il prossimo filo a essere tessuto in questa trama di tradizione e innovazione? E quali nuove storie ci sussurreranno gli abiti del futuro? La speranza, in fondo, è che queste risposte non siano mai definitive, ma che continuino a evolversi, proprio come la moda stessa.

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L’opera di Ana Segovia per la 60°Biennale di Venezia

La 60ma Biennale di Venezia, Foreigners Everywhere – Stranieri Ovunque, curata da Adriano
Pedrosa
, si è conclusa il 24 novembre 2024. Il titolo di questa Biennale prende il nome da
un’opera del collettivo Claire Fontaine, ispirata a un volantino anarchico trovato a Torino, due
parole che esprimono un duplice significato: lo straniero è la persona che stiamo guardando o
siamo noi? La verità è che siamo tutti stranieri, andiamo tutti incontro alla diversità dell’altro
mettendo in gioco anche la nostra, ritrovandoci fuori posto, essendo ovunque noi, e incontrando
ovunque gli altri.


In questa edizione si tratta il diverso, il viaggio, l’integrazione, la tradizione, i canoni ed a tale
scopo spesso troviamo opere che utilizzano la forma tessile, riconoscendola come un prezioso
strumento di narrazione. Pedrosa ha scelto di dare spazio ad artisti che non avevano mai
esposto alla Biennale, tra i quali Ana Segovia.


Ana Segovia (1991) è un’artista messicana, una pittrice che in questa occasione ha esposto la
sua prima opera video: “Pos’ se acabó este cantar” ovvero “bene, ora basta cantare”. Il titolo
dell’opera non viene giustificato ma, facendo una piccola ricerca, si può supporre che provenga
da una pellicola messicana Dos tipos de cuidados, dove i protagonisti sono due famosi cantanti
charros messicani, Jorge Negrete e Pedro Infante. “Pues/pos’ se acabó este cantar” è la frase
conclusiva di una copla, un duetto dal sapore dissing tra i due protagonisti che culmina in una
minaccia di duello frenato dall’intervento di una delle donne contese dai due charros.


Il charro è il cowboy messicano, esempio di virilità, prototipo maschile, un’identità antica
risalente all’epoca coloniale legata all’attività dell’allevamento degli animali ed anche ad una
certa spettacolarizzazione di tale pratica. A questa usanza segue una tradizione cinematografica
sicuramente comica ma decisamente machista, un film con Adriano Celentano in Messico, per
intenderci, dove gli uomini devono dimostrare che la loro virilità risponde alle aspettative della
società in cui sono inseriti.


Ana Segovia rimodula i parametri: seleziona delle stoffe ritenute inopportune per la figura del
charro. A conferma, l’artista ha ricevuto diversi rifiuti prima di trovare un sarto che si prestasse
al loro confezionamento, perché appunto quelle stoffe sono da “finocchi”. Jorge Negrete, l’unico
sarto che ha deciso di collaborare con lei, in principio aveva chiesto di restare anonimo proprio
per non associare il suo nome a questo scempio, ma ha cambiato idea una volta visto il risultato.


Ad una prima occhiata ho pensato che i colori scelti fossero la versione fluo di una selezione di
bandiere queer, ciononostante l’artista dichiara di aver scelto tali colori per infiocchettare,
patinare, attrarre, come in un negozio di caramelle, in un luogo innocuo. L’opera, locata nella
sede dell’Arsenale, si configura in una piccola stanza ricavata al centro della sala, uno dei suoi
dipinti sulla parete esterna a darci il benvenuto accanto all’ingresso. Dentro le luci sono soffuse,
le pareti sono rosa fluo, e da fuori si intravede uno still dell’opera video su quello che sembra
essere la parte frontale dello schermo mentre in realtà ne è il retro. Sentiamo però dei suoni,
scroscii, tonfi, calpestio, rumori di schiaffi. Voltiamo l’angolo e troviamo due charros, in abiti tipici
tinti di rosa, azzurro e arancio fluo, che si percuotono: c’è un misto di violenza, gioco ed
erotismo.


Il video riparte, non vediamo mai i volti dei charros (uno dei quali interpretato da Ana), il loro
genere non è identificabile; si vestono, si vestono a vicenda, chiudendo i bottoni e rimboccando
le camicie l’una dell’altra. L’erotometro cresce: a vestizione ultimata si spingono, picchiano, fino
a spaccare la parete gialla dello sfondo. Una carta di caramella che contiene qualcosa di marcio,
forse l’incapacità di gestire l’emotività, l’impossibilità di esprimere il desiderio oppure il
meccanismo malsano per cui la passionalità viene confusa con la violenza.


È chiaro per me, per quanto immagino sia facile pensarla diversamente, considerata la difficoltà
che incontriamo a trattare questi temi, che non si voglia sminuire l’atteggiamento maschile;
piuttosto, con le consapevolezze acquisite negli anni, si vuole mostrare che è possibile fare
diversamente, al di là del genere. Non bisogna necessariamente rispondere a dei parametri
radicati.

La trovo una riflessione sulla cultura, sulle culture, che, seppur distanti, si incontrano su
molti punti, sul darci la possibilità di essere più di ciò che viene determinato alla nascita, per
sesso, cultura o per altri fattori. Penso sia l’auspicio a crescere, ad accrescerci, privandoci dei
substrati di cui si vestono i due charros, indumento dopo indumento.

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Bulgari e il fascino dei Mosaici Romani

Roma, “le fontane scheggiate”, la sua storia, le sue piazze e, soprattutto, i mosaici che decorano i monumenti più iconici, è da sempre una fonte inesauribile di ispirazione. E proprio dall’antica magnificenza dei mosaici delle Terme di Caracalla nasce la nuova, strabiliante collezione di borse Diva’s Dream firmata Bulgari. Un omaggio alla storia di Roma, un incontro perfetto tra il passato e il presente, dove l’arte millenaria diventa il cuore pulsante dell’eleganza contemporanea.

Da sempre, Bulgari incarna l’anima della capitale, e questa volta, sotto la direzione creativa di Mary Katrantzou – che guida il reparto accessori della maison da aprile 2024– il marchio ha deciso di rendere omaggio ai mosaici romani, una delle forme artistiche più affascinanti e ricche di significato della nostra storia. Dopo un’intensa ricerca tra gli archivi storici, Katrantzou ha tratto ispirazione dalle geometrie e dai colori vibranti dei mosaici delle Terme di Caracalla, creando un pattern esclusivo, Calla, che diventa l’elemento distintivo di questa collezione.

Un simbolo che racconta Roma

Con Diva’s Dream, Bulgari dà vita a una nuova identità visiva, che si fa eco dei celebri motivi del serpente – emblema del marchio – ma con un carattere tutto suo. Non un semplice logo, ma un simbolo che celebra la connessione tra l’antica Roma e la modernità della moda. Le borse della collezione, infatti, non sono solo accessori; sono vere e proprie finestre sulla storia, portando con sé la grandiosità del passato e reinterpretandola in chiave sofisticata e attuale.

Tra i pezzi più iconici, spicca la clutch Ginkgo, un’interpretazione in chiave contemporanea del mosaico, che cattura l’essenza del pattern Calla attraverso la lavorazione matelassé e l’uso di cristalli pavé. Questa clutch, sospesa su un bracciale in pelle, è considerata da Katrantzou come l’espressione più pura di questo nuovo linguaggio visivo, simbolo di una fusione perfetta tra arte e moda.

Al fianco della Ginkgo, ci sono anche le nuove Serpenti Duo e Serpenti Sugarloaf, borse a spalla in nappa morbida con volumi imbottiti, pensate per l’iconica donna Bulgari: elegante, audace, e perfettamente in sintonia con il suo tempo.

L’arte del dettaglio e la magia dell’artigianalità

Guardando una borsa Bulgari, è impossibile non notare la sua perfezione nei dettagli. Questo non è un caso: ogni creazione è il risultato di una sapiente alchimia tra maestria artigianale e materiali preziosi. Il lavoro meticoloso di ogni singolo pezzo ricorda la complessità dei mosaici antichi, dove ogni tessera era posizionata con precisione per formare motivi di grande impatto visivo.

Le borse sono realizzate a mano da esperti artigiani, che utilizzano tecniche tradizionali e strumenti sofisticati per creare l’effetto tridimensionale dei mosaici. Tra pietre dure, smalti lucenti e metalli che riflettono la luce come tessere di un mosaico antico, ogni borsa Bulgari si trasforma in un’opera d’arte da indossare, in grado di raccontare una storia di bellezza, tradizione e innovazione.

Simboli e Significati: l’anima della collezione

I mosaici romani non sono solo decorazioni: sono simboli che parlano di vita, di natura, di divinità, e di armonia. In questa collezione, Bulgari ha saputo cogliere questi significati profondi e riproporli attraverso i suoi modelli. I motivi floreali, che nei mosaici antichi rappresentano prosperità e rinascita, sono visibili in dettagli preziosi, mentre le figure geometriche rimandano ai pavimenti dei palazzi imperiali, evocando una sensazione di equilibrio e ordine cosmico.

Ogni borsa diventa così un legame diretto con la grande storia di Roma, un omaggio visivo alla città eterna che non smette mai di ispirare e stupire.

Diva’s Dream più che una semplice collezione di borse è una dichiarazione di stile che fonde la modernità con l’eredità storica di Roma. Bulgari, ancora una volta, ha dimostrato come la moda possa essere veicolo di cultura, raccontando storie attraverso linee eleganti e significati profondi. Un perfetto esempio di come l’arte, il design e la storia possano convivere e trasformarsi in creazioni senza tempo.

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Scoprire l’arte della moda attraverso le serie tv

Il mondo dei contenuti audiovisivi non è mai stato indifferente al fascino della moda, come testimoniano numerosi film, serie TV e documentari che hanno preso in prestito volti e dinamiche di una realtà tanto famosa quanto ancora misteriosa e irraggiungibile per i più.

Alcuni di questi prodotti hanno segnato la storia non solo del cinema e della televisione ma soprattutto della cultura pop, guadagnando iconicità. Tra questi è impossibile non menzionare Il Diavolo Veste Prada, la cui notorietà e longevità è alimentata da un’ondata di nostalgia collettiva nei confronti del periodo che va dalla fine degli anni ‘90 all’inizio del nuovo millennio.

Oggi l’industria cinematografica sembra aver accantonato queste storie, avendo trovato nella formula dei biopic dedicati a cantanti e rockstar un modo sicuro per ottenere grande successo al box office.

Le piattaforme streaming, al contrario, nell’ultimo anno hanno iniziato a mostrare un crescente interesse nella trasposizione sul piccolo schermo delle vite dei grandi stilisti.

Solo nei primi tre mesi del 2024, a poca distanza l’una dall’altra, sono uscite le serie dedicate a Cristòbal Balenciaga e Christian Dior, rispettivamente su Disney+ e AppleTV+.

Sebbene con toni e scelte narrative piuttosto differenti, sia nell’omonima serie sul couturier spagnolo che in The New Look è possibile cogliere la volontà di porsi come una sorta di antidoto alla pervasiva e inquinante tendenza del fast fashion che ha appiattito, o per meglio dire impoverito, il rapporto dell’individuo con l’abbigliamento.

Oggi i vestiti sono oggetti di consumo standardizzati alla pari di qualsiasi altra tipologia di merce e molto spesso non si ha consapevolezza del loro processo produttivo, ragion per cui si tende ad acquistare quanti più capi possibili a basso prezzo e di conseguente bassa qualità anziché preferire una quantità ridotta ma di miglior fattura e con alle spalle probabilmente una lavorazione più etica (almeno si spera).

Laddove The New Look indulge in una prospettiva storica e melodrammatica, accantonando un po’ la moda, Cristòbal Balenciaga ricorda allo spettatore contemporaneo quanto la sartoria andrebbe considerata un’arte a tutti gli effetti.

Un’arte che non richiede solo talento ma ore di lavoro manuale, sacrificio e, nel caso di Balenciaga che decise di chiudere la sua maison pur di non cedere al prêt-à-porter, nessun compromesso.

Nel nostro immaginario, quando parliamo di artisti pensiamo immediatamente a pittori, scultori, musicisti, scrittori: perché non includere anche sarti e stilisti le cui creazioni già da decenni sono conservate nelle più prestigiose istituzioni museali?

Non a caso, il reparto costumi di Balenciaga e The New Look ha lavorato a stretto contatto con archivi e musei per replicare fedelmente le collezioni mostrate nel corso degli episodi. I modelli realizzati per The New Look sono diventati oggetto di una esposizione allestita all’interno della Galerie Dior a Parigi, la quale ha registrato un numero considerevole di presenze.

Trasporre sul piccolo schermo l’aspetto più “artigianale” delle carriere di questi uomini e donne – e non solo le loro stravaganze e turbolente vite private – potrebbe contribuire a ridefinire la percezione superficiale che in molti ancora hanno sul settore della moda.

Se sappiamo come e da dove sono nati i più celebri dipinti e le più memorabili canzoni, è arrivato il tempo di scoprire che gli abiti di alta moda hanno origine dalla medesima energia creativa.

Dopo aver esplorato le vite e il lavoro di Dior e Balenciaga, a giugno è attesa la serie Becoming Karl Lagerfeld sull’ascesa dello stilista tedesco come direttore creativo di Chanel, sempre su Disney+.

A marzo gli eredi della famiglia Gucci hanno annunciato, in collaborazione con la casa di produzione francese Gaumont e la Alcor Film di Giorgio Gucci, un progetto incentrato sulle vicende che hanno condotto Guccio Gucci a fondare il brand fiorentino.

Data l’abbondanza di storie al maschile, attendiamo di poter seguire settimana dopo settimana anche le vicende delle grandi protagoniste della moda.

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Sicilia e artigianato: l’arte di Lidia Mallia

Noi di madin vogliamo parlare di artigianato in Sicilia, raccontare le esperienze e i casi di giovani artigiani che vogliono diffondere l’arte del handmade. Uno di questi esempi è Lidia Mallia, artigiana di qualità che da diversi anni si dedica alla realizzazione di accessori e capsule collection in ottica slow fashion.

La nostra curiosità ha preso il sopravvento e quindi abbiamo deciso di interviste Lidia, così da scoprire il suo mondo e magari qualche progetto futuro!

Presentati, come ti chiami quali studi hai fatto?

Mi chiamo Lidia e da sempre l’arte e’ stata la mia fonte di vita. Non ho mai immaginato altro ed il mio percorso di studi è stato sempre abbastanza naturale. Alle scuole medie mi sono avvicinata alla fotografia e come scuola superiore ho scelto di frequentare un liceo artistico con indirizzo pittura.

Subito dopo il diploma sono partita a Venezia per frequentare l’accademia di belle arti, per poi completare gli studi a Catania. Nel frattempo mi sono innamorata del cucito, per gioco ho fondato il mio brand nel 2015 e dopo la laurea ho frequentato un corso di pelletteria per approfondire le mie basi da autodidatta.

Quando nasce l’idea di aprire un tuo atelier?

Nasce mentre frequentavo l’accademia, avevo capito che il cucito mi dava molta gioia e riuscire ad arrivare alla gente con ciò che creavo era meraviglioso.

Raccontami del tuo marchio, quali sono gli elementi che lo contraddistinguono?  

Amando la pittura ho iniziato con dei tessuti dalle stampe stravaganti, dopo poco tempo ho scoperto un fornitore che poteva stampare i miei disegni, una svolta per me, potevo cucire degli accessori unici con delle stampe esclusive, questo è ancora un elemento fondamentale del mio marchio.

Dopo poco tempo mi sono avvicinata alla pelle, un materiale versatile e duraturo che sfrutta al massimo l’economia circolare. Negli anni questi due elementi sono rimasti i punti cardine del brand, parlo di tessuti illustrati e pelli.

Dove si trova il tuo atelier e come si rapporta al territorio?

La sede operativa si trova in un piccolo paese in provincia di Siracusa ma conosciamo bene la realtà delle nostre zone quindi è fondamentale la presenza sui social ed un e-commerce che spedisce in tutto il mondo.

Artigianato e sostenibilità, quali sono le sfide che hai incontrato?

Utilizzando principalmente le pelli faccio i conti con chi sconosce la vera sostenibilità di questo materiale, credendo che sia piuttosto la finta pelle ad essere la migliore amica dell’ambiente.

In realtà è assolutamente l’opposto, per creare l’eco pelle o finta pelle vengono usati materiali plastici, la quale va ad incidere fortemente sull’ambiente, poiché per la produzione sono utilizzati prodotti plastici derivanti dal petrolio e quindi altamente inquinanti per il nostro pianeta. Inoltre il nostro è un territorio difficile, quindi senza l’aiuto dei social sarebbe difficile emergere.

Quali sono le tue creazioni principali?

Principalmente realizzo borse e accessori, da qualche anno ho introdotto anche abiti e corsetti su misura.

Hai qualche sorpresa/programma per il futuro?

Per il momento ho delle cose in mente ma le comunicherò non appena avrò tutto più chiaro!

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BAGS PIPES per I-DESIGN. Arte, design e tradizioni.

In occasione della XII edizione di I-Design Palermo, in questi giorni e fino al 6 ottobre sarà aperta al pubblico nella sede dell’Ex Convento della Maggiore, via Teatro Garibaldi n27 a Palermo, la mostra BAGS PIPES, frutto del laboratorio sartoriale degli studenti di Fashion Design dell’Accademia di Belle Arti di Catania a cura di Andrea Giovanni Calì, cultore della materia Stile, storia dell’arte e del costume.

L’esposizione funge anche da paesaggio sonoro, raccontato dalle silhouette degli otri di zampogne, rivisitate per l’occasione in chiave contemporanea dagli studenti. Un progetto didattico del docente Vittorio Ugo Vicari che integra la 20° edizione del Festival “Zampognarea. Il mondo delle zampogne tra uomini e suoni” evento prodotto dal Presidente di AreaSud Maurizio Cuzzocrea.

Bags Pipes si annovera tra gli eventi in programma della XII Edizione di I-Design dal titolo “Andar per Mondi”, momento culturale e artistico di contaminazione tra spazio e design, storia e contemporaneità attraverso mostre, talk, presentazioni e convegni a cura della founder Daniela Brignone.

Il concept della XII Edizione “Andar per Mondi” esplora i diversi significati del viaggio in tutti i suoi aspetti, fisico, mentale e spirituale, simbolo di rottura o di legame. In questo contesto si colloca BAGS PIPES, legando il design all’antica tradizione delle novene popolari, tra zampogne e cornamuse, strumenti pastorali a sacco che accompagnavano gli uomini nei loro viaggi, simboli di identità e ritualità.

I-Design nasce nel 2012 con l’idea di lavorare sul tessuto siciliano economico e culturale, riportando i riflettori sulle potenzialità del territorio attraverso l’artigianato e la sua evoluzione. Daniela Brignone afferma ‹‹così come hanno fatto Dolce&Gabbana utilizzando la forza simbolica della Sicilia all’interno delle collezioni, I-Design vuole rivalutare la potenza artigianale siciliana. Con Bags Pipes si fa similmente, si riprende la tradizione per creare qualcosa di insolito, proponendo l’immagine vivida di una cultura celata dietro la frenesia delle città. La filosofia della tematica “Andar per Mondi” è proprio l’elogio alla lentezza, uno stimolo a creare una nuova connessione con l’ambiente e a mondi sconosciuti come quello delle zampogne nel caso di Bags Pipes››.

Il laboratorio di valorizzazione estetica degli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Catania a cura di Andrea Giovanni Calì con il contributo didattico dei docenti Laura Mercurio e Massimo Savoia, si è basato sulla ripresa in chiave contemporanea, anche un po’ cool e scenografico dell’otre in pelle, creando appositamente un rivestimento per proteggere lo strumento musicale dalle intemperie.

Ogni studente ha così interpretato e realizzato un piccolo oggetto d’arte per la musica tradizionale, utilizzando più tecniche, dal patchwork al macramè, ricamo e pittura, al fine di mantenere il legame tra tradizione e innovazione.

L’allestimento ha raccontato il curatore ‹‹è stato essenziale, caratterizzato da un percorso di teche in legno e vetro resina per tutelare e nel contempo far risaltare l’opera al suo interno››. L’idea di progettare una mostra che fosse il risultato della contaminazione tra presente e passato, tra innovazione e tradizione è stata mossa dal desiderio di avvicinare i giovani ad una delle più antiche tradizioni musicali europee e mediterranee attraverso la progettazione creativa e la comprensione del valore simbolico che gli strumenti come zampogna e cornamusa portano in sé.

Così come gli uomini viaggiavano per arricchire la comunità con le loro musiche, anche gli studenti che hanno progettato le opere, si sono immersi nella storia, un viaggio in una tradizione lontana da loro, appartenente ad un altro modo di vivere la musica ma che fa comunque parte dell’evoluzione sociale, culturale e artistica europea.

BAGS PIPES, sostenuta dall’Associazione AreaSud, sarà ancora visitabile fino al 6 ottobre a Palermo e prossimamente, in occasione dell’inizio del festival “Zampognarea. Il mondo delle zampogne tra uomini e suoni”, si sposterà in viaggio attraverso la Sicilia, per una seconda edizione nel catanese. 

Opere in mostra di: Giuseppe Adorno, Cristina Barnabà, Giorgia Caponnetto, Azzurra Catania, Aurora Cordaro, Rosario Alessio Ferrera, Diletta Fichera, Calogero Milioto, Desirèe Noè, Raffaella Patti, Sofì Poidomani, Salvo Presti, Marika Sferrazza, Irene Tomarchio.

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Un periodo piacevolmente movimentato per la Francia e per la capitale Parigi! Come da tradizione dal 1973 ad oggi, si puntano i riflettori sulla Paris Fashion Week Haute Couture, a seguito
della Fashion Week Menswear e il Vogue World 2024, un evento che coniuga moda e sport lungo la linea
temporale dei decenni del ‘900.


A termine della Fashion Week Menswear sono state molteplici le sensazioni percepite: dall’addio
alle scene di Dries Van Noten (dopo 38 anni di etichetta e 129 show), all’Esercito dell’Amore di
Rick Owens, attraverso cui il designer delle tenebre ha stupito con la sua capacità di tramutare
l’oscurità che lo caratterizza in una visione di raso bianco, passando per Pharrel Williams che per
Louis Vuitton convince con il suo concetto di conoscenza e condivisione tra le diverse nazioni del
mondo, trovando ispirazione dalle arti afro-diasporiche.


L’Haute Couture di questa stagione,dal 24 al 27 giugno 2024, è stata rappresentata dai grandi nomi della macchina moda e ad aprire le danze è stato Schiaparelli.
Lo show è un chiarissimo omaggio che Daniel Roseberry fa ad Elsa Schiaparelli, andando a
sottolineare quanto già novant’anni addietro lei fosse lungimirante nel suo concetto di moda,
totalmente indifferente alle regole del mercato e strettamente legata all’arte in ogni sua forma,
sublimando il talento di lei che riusciva a tradurre l’arte stessa in abiti.


Lo straordinario lavoro di Roseberry inizia con un richiamo ad una stola di piume indossata dalla
stessa Schiaparelli negli anni ’40, in occasione di un evento: la leggenda metropolitana racconta che
fosse un riferimento all’amica ballerina Anna Pavlova, interprete del Lago dei Cigni, che invece di
ricordare un cigno delicato ed etereo, la consacra a fenice forte e indipendente.


Le uscite sono una più sorprendenti dell’altra: il lavoro di sovrapposizione di volumi, di
artigianalità e di studio delle texture sono la conferma che Roseberry realizza meticolosamente
connessioni precise tra il passato ed il presente, avvalendosi di materiali inusuali e preziosi,
portando a risultato degli show impeccabili che sfiorano e si confondono con il mondo dell’arte.


Daniel Roseberry dopo lo show, commenta: “Chi acquista Schiaparelli lo fa per collezionismo. Non è più una concezione di moda da indossare, è diventata arte a tutti gli effetti, totalmente libera da leggi di mercato ed imposizioni, quasi come se si rivivesse una nuova rivoluzione a distanza di novant’anni da quella compiuta da Elsa stessa che onorava il potere della rinascita non solo della moda, quanto di sé”.


Ammiriamo dunque, translucenze, volumi, virtuosismi, in una location appositamente pensata
quasi al buio, illuminata da chandelier fiochi, così che l’unica fonte di sguardo fosse per l’opera
d’arte, la Fenice pensata da Roseberry che vuole dare la possibilità alle donne che indossano o
collezionano Schiaparelli di rinascere più e più volte.


Daniel Roseberry non delude neanche questa volta, riesce a restare ancorato ai concetti della Maison
portando la sua estetica e la propria visione ad un equilibrio con il passato in maniera magistrale:
ogni show Schiaparelli è garanzia di bellezza ed ogni dettaglio meraviglioso si lascia solo
applaudire.

Salvador Dalì, di cui elsa era la Musa, sosteneva che nessuno sapesse pronunciare Schiaparelli, ma
tutti sapevano cosa significasse: rivive ancora, ogni volta, risorgendo dal suo passato, come una
Fenice, Schiaparelli attraverso Roseberry.

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New baroque per Maison Valentino

Molti lo aspettavano come una sorta di secondo avvento ed eccoci qua: Sir Alessandro Michele (completamente a sorpresa) ha portato in tavola, nella mattinata di un torrido 17 Giugno, un menù di ben 171 portate di pret-a-porter per la Maison Valentino, di cui ha da poco ricevuto lo scettro di direttore creativo dal suo predecessore Pier Paolo Piccioli.

La moda, come ben sappiamo, è un mondo in continua evoluzione, dove le aspettative e le speranze si intrecciano con l’innovazione e la creatività. Alessandro Michele, noto globalmente per aver rivoluzionato il mondo Gucci con il suo stile eccentrico e tocco barocco, ha portato la sua inconfondibile firma anche nella maison romana.

Un’impronta inconfondibile sì, forse anche fin troppo. Sebbene non si possa negare che Alessandro Michele abbia una visione creativa unica, capace di unire eleganza e stravaganza, l’ex paladino di casa Gucci ha mantenuto il suo stile caratterizzato da strati di tessuti ricchi e sofisticati, colori audaci e dettagli ornamentali: frange, broccati, pois, mantelli, turbanti. 

Quando si tratta di Michele e dettagli, chi più ne ha più ne metta, ma osservando attentamente la collezione emerge un’incessante sensazione di déjà vu, come se le sue passate e apparentemente lontane vecchie passerelle fossero state semplicemente traslate in una cornice non molto differente.

Al primo annuncio di questo nuovo incarico, molti si aspettavano una fusione tra la creatività quasi camp del designer e l’eleganza senza tempo della maison di Valentino Garavani. Purtroppo o per fortuna, ciò che emerge prevalentemente da questa prima presentazione è la prevalenza del linguaggio estetico di Michele.

Il romanticismo etereo e sofisticato che definiscono da sempre il brand sembrano essere stati sopraffatti da una continuità stilistica che, seppur affascinante, appare ridondante.
Non si può non riconoscere il talento di Michele nel creare collezioni che raccontano una storia complessa e ricca di dettagli.

Tuttavia, per Valentino, c’era l’aspettativa di vedere una nuova narrazione, una reinterpretazione dei codici della maison attraverso il suo sguardo, piuttosto che un’estensione della sua visione per Gucci.

Il rischio di adagiarsi su formule vincenti del passato può diventare un ostacolo per l’evoluzione stilistica che una maison come Valentino si è col tempo guadagnata e meritata.

Si potrebbe concludere l’analisi di questo primo approccio solo con queste considerazioni, ma sarebbe corretto? Risulta evidente che definire la visione di Michele egoistica e/o autocentrica sarebbe decisamente erroneo, facendo solo anche una piccola gita fuoripista tra gli archivi di Valentino.

Ai più attenti, osservando i capi presentati, apparirà evidente il rapimento di Michele da parte della bellezza dell’archivio storico di Valentino Garavani, molti dei capi, infatti, sono un diretto omaggio alle vecchie glorie di casa Valentino, con particolari riferimenti a patterns e design degli anni ‘60 e ‘70, tra cui figurano gli iconici look dell’ex first lady, Jackie Kennedy.

Un vero tocco di classe che ha sottolineato l’importanza delle origini e della storia nella continua evoluzione del brand, oltre che una spiccata capacità di ricerca e stilismo da parte di Michele stesso. 

Alla luce di queste considerazioni viene da chiedersi: e se questa fosse un’occasione non tanto di rinascita, ma di arricchimento, di formazione, e di modernizzazione sia per il brand che per il designer? 
Inizio significa adattamento e, nonostante qualche passo incerto, il viaggio di Michele con Valentino è appena iniziato.