Acquerello e Pastello Post Instagram Delicato Cura di Sé (1)

Il regime orwelliano della moda

Le dimissioni di Donatella Versace, l’imminente passaggio di Demna Gvasalia a Gucci e l’addio
di JW Anderson da Loewe stanno scuotendo le fondamenta del panorama moda contemporaneo.
Questi eventi, avvenuti a fashion week appena conclusa, hanno aperto un dibattito acceso sul futuro
delle maison, mettendo in luce una crisi di valori in cui la creatività sembra essere sacrificata
sull’altare del marketing e delle strategie comunicative.

Negli ultimi anni, le grandi case di moda hanno progressivamente abbandonato una visione
artistica coerente, preferendo scommettere su scelte di direzione che garantiscano un immediato
impatto mediatico. La sostituzione di figure emblematiche, come quella di Donatella Versace,
rappresenta non solo una rivoluzione estetica, ma anche un cambio di paradigma in cui l’identità
del brand viene rinegoziata in un contesto globalizzato e ipercompetitivo.

Il trasferimento di Demna Gvasalia a Gucci, infatti, ha destato scalpore: dopo una stagione di creatività e
sperimentazione, il brand si prepara a intraprendere un percorso che sembra privilegiare l’effimero
clamore mediatico rispetto a una visione a lungo termine. Allo stesso modo, l’uscita di JW
Anderson da Loewe lascia presagire un riposizionamento strategico che rischia di smorzare quella
scintilla creativa che aveva reso la maison sinonimo di innovazione.

A complicare il quadro, si aggirano voci su altre poltrone vuote e designer “disoccupati”, tra cui il
caso di Pierpaolo Piccioli, la cui presenza, fino a poco tempo fa, aveva garantito continuità e
raffinatezza a un brand iconico come Valentino. Queste speculazioni fanno emergere un sistema in
cui la scelta dei protagonisti è sempre più dettata da logiche di marketing aggressivo, anziché da
una valutazione profonda del valore artistico e della capacità innovativa.

I gruppi delle maison, infatti, sembrano aver abbracciato una strategia che ricorda inquietantemente il regime orwelliano descritto in 1984: un sistema in cui ogni mossa viene orchestrata da un “Grande Fratello” del marketing, capace di monitorare, intervenire e rimodellare le identità dei brand come fossero
semplici ingranaggi di una macchina finalizzata al profitto immediato. In questo contesto, la scelta
dei direttori creativi non risponde più a un’ispirazione artistica autentica, ma a un criterio di
visibilità e viralità, dove l’apparenza ha il sopravvento sulla sostanza.

Questa metafora orwelliana diventa particolarmente calzante se si considera come, a ogni nuova
decisione, le maison sembrino più preoccupate di alimentare un’immagine di rinnovamento
continuo che di preservare un’identità radicata e coerente. In questo scenario, la moda diventa il
palcoscenico di una rappresentazione manipolata, dove il talento individuale viene spesso messo in
secondo piano rispetto a una narrazione globale, orchestrata da poteri economici e mediatici.

Il rischio, per il settore, è quello di alimentare una spirale in cui la frequente rotazione dei nomi
non solo confonde il pubblico, ma indebolisce anche il potere simbolico dei brand stessi. La
moda, un tempo espressione di individualità e creatività , rischia così di cadere in una trappola di
apparenze, dove ogni nuovo nome è semplicemente un abile stratagemma per generare buzz,
lasciando in ombra il vero valore artistico.

Il futuro delle maison dipenderà dalla capacità del settore di ritrovare un equilibrio tra innovazione
e tradizione. Solo se le grandi compagnie sapranno riscoprire l’importanza della continuità creativa
e dell’autenticità, potranno uscire da questo circolo vizioso dominato da una logica orwelliana che
minimizza il valore dell’arte in favore del profitto immediato. In questo delicato equilibrio, il
talento individuale deve essere valorizzato e integrato in una strategia che vada oltre la mera
ricerca dell’impatto mediatico.

Le prossime fashion week si prospettano come il banco di prova per un settore in fermento, in
cui ogni scelta direzionale dovrà essere giudicata non solo in base alla capacità di generare
attenzione, ma anche per il suo contributo a un’identità duratura e autentica. Solo così la moda
potrà riscattarsi da una crisi che, sebbene dolorosa, offre l’opportunità di un rinnovamento
profondo e significativo.

valentino-s-dizzying-display-rocks-the-boat-at-paris-haute-couture-week

La prima “Vertigineux” di Alessandro Michele per Valentino

Vertigineux, la prima sfilata Haute Couture di Alessandro Michele per Valentino, ha generato un’ondata di ricerche, commenti e critiche. L’hashtag #Vertigineux ha iniziato immediatamente a circolare sui social, mentre il film ufficiale dello show ha accumulato migliaia di visualizzazioni su YouTube in poche ore. Articoli e recensioni hanno invaso il web, segno dell’enorme attesa e della curiosità intorno a questo debutto.

Non poteva essere altrimenti: l’incontro tra la visione estetica di Michele e l’eredità di Valentino era destinato a far discutere. Tra entusiasmo e scetticismo, il risultato è una collezione che segna una nuova era per la maison, fondendo passato e futuro con una narrazione potente e stratificata.

Il titolo dello show, Vertigineux, evoca un senso di smarrimento e stupore, due emozioni che Michele ha voluto tradurre in moda. Ispirandosi agli archivi di Valentino degli anni ’60 e ’70, ma anche ‘90, ha rielaborato silhouette iconiche con un approccio filologico e visionario, bilanciando nostalgia e innovazione.

“Mi piace la polvere che circonda il marchio. È polvere preziosa”, ha dichiarato Michele, sottolineando il suo rispetto per la storia della maison e la volontà di infonderle nuova vita. Più che un semplice omaggio all’heritage, questa collezione è un viaggio nel tempo, una reinterpretazione dei codici di Valentino attraverso la lente onirica e intellettuale dello stilista romano.

Per il suo debutto, Michele ha trasformato il Palais Brongniart in un universo sospeso tra sogno e realtà. La passerella in vetro specchiato amplificava la percezione di movimento, creando un effetto surreale.

Enormi drappeggi di velluto porpora e lampadari barocchi evocavano il fasto delle corti europee e l’opulenza anni ’70 di Valentino Garavani. Il fulcro della scenografia era una grande spirale, simbolo del tempo che si avvolge su se stesso, richiamando le celebri spirali couture create da Garavani negli anni ’70. Un’allusione visiva perfetta al concetto di vertigine su cui si basa l’intera collezione.

L’Haute Couture di Valentino è sinonimo di eccellenza sartoriale, e Michele ha saputo valorizzarla con una collezione di straordinaria complessità artigianale. Volumi scultorei, ricami tridimensionali e lavorazioni minuziose hanno dimostrato la maestria degli atelier romani della maison.

Gonne a balze, cappotti in broccato, dettagli in pelliccia sintetica e calze di pizzo hanno definito un’estetica sofisticata e teatrale. I motivi floreali ricamati a mano, ispirati agli affreschi pompeiani, hanno confermato la meticolosa ricerca storica dietro ogni capo.

Michele ha reinterpretato gli abiti a colonna degli anni ’70 con nuove proporzioni e ha dato una nuova profondità al celebre rosso Valentino, rendendolo più polveroso e drammatico.

Michele ha scelto un’estetica più stratificata e barocca. Il suo lavoro sugli archivi non è stato solo stilistico, ma  concettuale: ha esplorato il pensiero dietro ogni creazione di Valentino Garavani, traducendolo in un linguaggio più narrativo e teatrale.

Le forme classiche della maison si mescolano a dettagli eccentrici, creando un equilibrio tra rigore sartoriale e immaginario visionario. Il risultato è una couture che esce dalla dimensione puramente estetica per diventare un’esperienza immersiva e intellettuale.

Come ogni rivoluzione, anche questa ha diviso il pubblico. Molti hanno elogiato la capacità di Michele di infondere nuova energia nella maison, rendendo omaggio all’heritage di Valentino Garavani senza scadere nella nostalgia, rielaborando gli abiti con una sensibilità contemporanea, dando vita a una collezione che esplora il concetto di tempo, memoria e identità.

Il suo studio storico e filosofico ha reso la sfilata non solo un esercizio di stile, ma una riflessione sulla moda come archivio vivente. Non si è limitato a reinterpretare gli archivi, ma li ha tradotti in un linguaggio nuovo, capace di emozionare e far discutere.

Il designer ha dimostrato la sua abilità nel reinventare l’eredità di Valentino con un linguaggio personale, mantenendo un forte legame con la tradizione sartoriale della casa.

Il debutto di Alessandro Michele nell’Haute Couture di Valentino con Vertigineux segna un momento significativo per la maison. Il designer ha affermato la sua abilità nel reinventare l’eredità di Valentino con un linguaggio personale, mantenendo un forte legame con la tradizione sartoriale della casa.

Una narrazione estetica e concettuale che ridefinisce il futuro della couture, e forse proprio questa vertigine di emozioni e significati è la chiave della sua visione per Valentino.

Forme_mobili_delfino_sl-dsl-__studio-©-Triennale-Milano-DSL00597-Modifica

La moda alla Triennale di Milano

La triennale di Milano ha recentemente inserito nel suo organico un reparto interamente dedicato alla moda, e come prima mossa, l’allestimento di “Forme Mobili”, esposizione che unisce i pezzi conosci di maison come Capucci, Krizia, Giorgio Armani, Vivienne Westwood, Versace, Alaïa e Comme des Garçons, e locata all’interno del museo del design italiano, mette già bene in chiaro come quest’iniziativa di ponga come obbiettivo il far conoscere la grande pubblico l’intrinseca connessione che lega le due discipline del
design a quella del fashion system.

L’obiettivo del Dipartimento pare quindi essere quello di sviluppare e mettere in connessione la moda con altri ambiti culturali, evitando il rischio di una visione statica e museale del settore.

Custode di questo dialogo tra passato e futuro è Luca Stoppini, volto non certo nuovo al mondo della moda nostrana. Già rinomato nell’ambito direzione creativa e dell’editoria in ambito moda infatti, nel 1991, ha fondato a Milano il proprio studio di consulenza creativa, collaborando con prestigiosi brand internazionali, case editrici, musei e teatri.

Tra i suoi clienti figurano nomi come Dolce & Gabbana, Moncler, Chanel e Giorgio Armani. La sua carriera, iniziata nel 1981 presso Condé Nast Italia, è proseguita poi con “Vanity”, per poi collezionare note di merito come direttore creativo di Vogue Italia (1991) e Icon (2020).

La sua influenza nel settore è riconosciuta a livello globale, con menzioni in pubblicazioni come “The Business of Fashion”. Insomma, questo piovere del fashion system, si propone di esplorare la moda come terreno di intersezione con altre espressioni culturali contemporanee.

Ma cosa Significa l’apertura del Dipartimento Moda alla Triennale di Milano per il Futuro della cultura Italiana? Perché dedicare uno spazio esclusivo alla moda in una delle più prestigiose istituzioni di design?

La moda, da sempre pilastro della cultura e dell’economia del bel paese. Tuttavia, essa mancava di un luogo istituzionale dove fosse esplorata come fenomeno culturale complesso, al pari del design, dell’architettura o dell’arte. Il neonato dipartimento riempirebbe così questa lacuna, riconoscendo ufficialmente la moda come disciplina interdisciplinare che incarna creatività, innovazione, artigianalità e dialogo con il contesto storico e sociale.

Come Comme des Garçons trova un parallelo nelle linee minimaliste di un pezzo di design industriale, allo stesso modo, un capo di Capucci dialoga visivamente con una scultura di design, trasformando l’esperienza di chi osserva in una riflessione sulle forme, i materiali e l’innovazione.

Alla base di questa nuova visione c’è il centro studi “Cuore”, un archivio e laboratorio di ricerca che valorizza i magazzini della Triennale. Questo spazio funge da hub per lo studio e l’acquisizione di capi iconici attraverso donazioni, comodati d’uso e acquisizioni mirate.

Finora, oltre una dozzina di capi sono già stati integrati nella collezione, con l’obiettivo di costruire una narrazione visiva che rifletta sia la tradizione che l’evoluzione della moda.

Questa iniziativa mira a sfidare la percezione tradizionale della moda come un’espressione effimera, posizionandola invece come una disciplina capace di influenzare e dialogare con le altre forme d’arte. Non si tratta di conservare abiti per fini nostalgici, ma di studiarli e utilizzarli per tracciare i cambiamenti culturali e sociali che scandiscono il nostro tempo.

Tuttavia, il successo del Dipartimento Moda dipenderà dalla sua capacità di innovare e di rappresentare tutte le voci del settore. Sarà cruciale esplorare non solo le grandi maison e i nomi più noti, ma anche i designer emergenti, le sottoculture e i movimenti di moda sostenibile che stanno ridefinendo il futuro del settore.

L’inclusività dovrà essere al centro delle attività del Dipartimento, garantendo che tutte le sfaccettature della moda – dalle tradizioni artigianali locali alle tecnologie più avanzate – siano rappresentate. Inoltre, sarà fondamentale utilizzare questa piattaforma per educare il pubblico sul valore della moda come espressione culturale e strumento di cambiamento.

Il Dipartimento Moda della Triennale di Milano punta ad ergersi come un laboratorio vivente, un crocevia dove la moda si spoglia della sua transitorietà per farsi ponte verso l’eterno. Ogni mostra, ogni capo acquisito, ogni collaborazione sarà un tassello che senza dubbio contribuirà ad aggiunge profondità a una narrazione ancora tutta da scrivere.

Non si può fare a meno di chiedersi, quale sarà il prossimo filo a essere tessuto in questa trama di tradizione e innovazione? E quali nuove storie ci sussurreranno gli abiti del futuro? La speranza, in fondo, è che queste risposte non siano mai definitive, ma che continuino a evolversi, proprio come la moda stessa.

5953844010185507790

L’opera di Ana Segovia per la 60°Biennale di Venezia

La 60ma Biennale di Venezia, Foreigners Everywhere – Stranieri Ovunque, curata da Adriano
Pedrosa
, si è conclusa il 24 novembre 2024. Il titolo di questa Biennale prende il nome da
un’opera del collettivo Claire Fontaine, ispirata a un volantino anarchico trovato a Torino, due
parole che esprimono un duplice significato: lo straniero è la persona che stiamo guardando o
siamo noi? La verità è che siamo tutti stranieri, andiamo tutti incontro alla diversità dell’altro
mettendo in gioco anche la nostra, ritrovandoci fuori posto, essendo ovunque noi, e incontrando
ovunque gli altri.


In questa edizione si tratta il diverso, il viaggio, l’integrazione, la tradizione, i canoni ed a tale
scopo spesso troviamo opere che utilizzano la forma tessile, riconoscendola come un prezioso
strumento di narrazione. Pedrosa ha scelto di dare spazio ad artisti che non avevano mai
esposto alla Biennale, tra i quali Ana Segovia.


Ana Segovia (1991) è un’artista messicana, una pittrice che in questa occasione ha esposto la
sua prima opera video: “Pos’ se acabó este cantar” ovvero “bene, ora basta cantare”. Il titolo
dell’opera non viene giustificato ma, facendo una piccola ricerca, si può supporre che provenga
da una pellicola messicana Dos tipos de cuidados, dove i protagonisti sono due famosi cantanti
charros messicani, Jorge Negrete e Pedro Infante. “Pues/pos’ se acabó este cantar” è la frase
conclusiva di una copla, un duetto dal sapore dissing tra i due protagonisti che culmina in una
minaccia di duello frenato dall’intervento di una delle donne contese dai due charros.


Il charro è il cowboy messicano, esempio di virilità, prototipo maschile, un’identità antica
risalente all’epoca coloniale legata all’attività dell’allevamento degli animali ed anche ad una
certa spettacolarizzazione di tale pratica. A questa usanza segue una tradizione cinematografica
sicuramente comica ma decisamente machista, un film con Adriano Celentano in Messico, per
intenderci, dove gli uomini devono dimostrare che la loro virilità risponde alle aspettative della
società in cui sono inseriti.


Ana Segovia rimodula i parametri: seleziona delle stoffe ritenute inopportune per la figura del
charro. A conferma, l’artista ha ricevuto diversi rifiuti prima di trovare un sarto che si prestasse
al loro confezionamento, perché appunto quelle stoffe sono da “finocchi”. Jorge Negrete, l’unico
sarto che ha deciso di collaborare con lei, in principio aveva chiesto di restare anonimo proprio
per non associare il suo nome a questo scempio, ma ha cambiato idea una volta visto il risultato.


Ad una prima occhiata ho pensato che i colori scelti fossero la versione fluo di una selezione di
bandiere queer, ciononostante l’artista dichiara di aver scelto tali colori per infiocchettare,
patinare, attrarre, come in un negozio di caramelle, in un luogo innocuo. L’opera, locata nella
sede dell’Arsenale, si configura in una piccola stanza ricavata al centro della sala, uno dei suoi
dipinti sulla parete esterna a darci il benvenuto accanto all’ingresso. Dentro le luci sono soffuse,
le pareti sono rosa fluo, e da fuori si intravede uno still dell’opera video su quello che sembra
essere la parte frontale dello schermo mentre in realtà ne è il retro. Sentiamo però dei suoni,
scroscii, tonfi, calpestio, rumori di schiaffi. Voltiamo l’angolo e troviamo due charros, in abiti tipici
tinti di rosa, azzurro e arancio fluo, che si percuotono: c’è un misto di violenza, gioco ed
erotismo.


Il video riparte, non vediamo mai i volti dei charros (uno dei quali interpretato da Ana), il loro
genere non è identificabile; si vestono, si vestono a vicenda, chiudendo i bottoni e rimboccando
le camicie l’una dell’altra. L’erotometro cresce: a vestizione ultimata si spingono, picchiano, fino
a spaccare la parete gialla dello sfondo. Una carta di caramella che contiene qualcosa di marcio,
forse l’incapacità di gestire l’emotività, l’impossibilità di esprimere il desiderio oppure il
meccanismo malsano per cui la passionalità viene confusa con la violenza.


È chiaro per me, per quanto immagino sia facile pensarla diversamente, considerata la difficoltà
che incontriamo a trattare questi temi, che non si voglia sminuire l’atteggiamento maschile;
piuttosto, con le consapevolezze acquisite negli anni, si vuole mostrare che è possibile fare
diversamente, al di là del genere. Non bisogna necessariamente rispondere a dei parametri
radicati.

La trovo una riflessione sulla cultura, sulle culture, che, seppur distanti, si incontrano su
molti punti, sul darci la possibilità di essere più di ciò che viene determinato alla nascita, per
sesso, cultura o per altri fattori. Penso sia l’auspicio a crescere, ad accrescerci, privandoci dei
substrati di cui si vestono i due charros, indumento dopo indumento.

c9c45677015646454b2d07cbb4cac833-1

New baroque per Maison Valentino

Molti lo aspettavano come una sorta di secondo avvento ed eccoci qua: Sir Alessandro Michele (completamente a sorpresa) ha portato in tavola, nella mattinata di un torrido 17 Giugno, un menù di ben 171 portate di pret-a-porter per la Maison Valentino, di cui ha da poco ricevuto lo scettro di direttore creativo dal suo predecessore Pier Paolo Piccioli.

La moda, come ben sappiamo, è un mondo in continua evoluzione, dove le aspettative e le speranze si intrecciano con l’innovazione e la creatività. Alessandro Michele, noto globalmente per aver rivoluzionato il mondo Gucci con il suo stile eccentrico e tocco barocco, ha portato la sua inconfondibile firma anche nella maison romana.

Un’impronta inconfondibile sì, forse anche fin troppo. Sebbene non si possa negare che Alessandro Michele abbia una visione creativa unica, capace di unire eleganza e stravaganza, l’ex paladino di casa Gucci ha mantenuto il suo stile caratterizzato da strati di tessuti ricchi e sofisticati, colori audaci e dettagli ornamentali: frange, broccati, pois, mantelli, turbanti. 

Quando si tratta di Michele e dettagli, chi più ne ha più ne metta, ma osservando attentamente la collezione emerge un’incessante sensazione di déjà vu, come se le sue passate e apparentemente lontane vecchie passerelle fossero state semplicemente traslate in una cornice non molto differente.

Al primo annuncio di questo nuovo incarico, molti si aspettavano una fusione tra la creatività quasi camp del designer e l’eleganza senza tempo della maison di Valentino Garavani. Purtroppo o per fortuna, ciò che emerge prevalentemente da questa prima presentazione è la prevalenza del linguaggio estetico di Michele.

Il romanticismo etereo e sofisticato che definiscono da sempre il brand sembrano essere stati sopraffatti da una continuità stilistica che, seppur affascinante, appare ridondante.
Non si può non riconoscere il talento di Michele nel creare collezioni che raccontano una storia complessa e ricca di dettagli.

Tuttavia, per Valentino, c’era l’aspettativa di vedere una nuova narrazione, una reinterpretazione dei codici della maison attraverso il suo sguardo, piuttosto che un’estensione della sua visione per Gucci.

Il rischio di adagiarsi su formule vincenti del passato può diventare un ostacolo per l’evoluzione stilistica che una maison come Valentino si è col tempo guadagnata e meritata.

Si potrebbe concludere l’analisi di questo primo approccio solo con queste considerazioni, ma sarebbe corretto? Risulta evidente che definire la visione di Michele egoistica e/o autocentrica sarebbe decisamente erroneo, facendo solo anche una piccola gita fuoripista tra gli archivi di Valentino.

Ai più attenti, osservando i capi presentati, apparirà evidente il rapimento di Michele da parte della bellezza dell’archivio storico di Valentino Garavani, molti dei capi, infatti, sono un diretto omaggio alle vecchie glorie di casa Valentino, con particolari riferimenti a patterns e design degli anni ‘60 e ‘70, tra cui figurano gli iconici look dell’ex first lady, Jackie Kennedy.

Un vero tocco di classe che ha sottolineato l’importanza delle origini e della storia nella continua evoluzione del brand, oltre che una spiccata capacità di ricerca e stilismo da parte di Michele stesso. 

Alla luce di queste considerazioni viene da chiedersi: e se questa fosse un’occasione non tanto di rinascita, ma di arricchimento, di formazione, e di modernizzazione sia per il brand che per il designer? 
Inizio significa adattamento e, nonostante qualche passo incerto, il viaggio di Michele con Valentino è appena iniziato.

DIOR_CRUISE25_LOOK-66-683x1024-1

Dior Cruise25: regale estetica punk

Nel verde cuore pulsante delle maestose Highlands scozzesi, tra le radure sconfinate e le antiche pietre che circondano il maestoso giardino del Drummond Castle, Maria Grazia Chiuri presenta per Dior la sua collezione Cruise 2025. Questo scenario incantato, impregnato di una serenità magica, ha fatto da sfondo a una sfilata che ha saputo unire la fredda quiete del paesaggio scozzese con un’audace estetica punk.

La location scelta per la sfilata non è casuale, lo stesso Christian Dior, nel 1951 aveva scelto le colline scozzesi per presentare la sua collezione primavera estate di quell’anno. Grazie a questo viaggio nella memoria, la collezione di Chiuri ha immediatamente trasportato gli spettatori in un’altra epoca.

L’aria fresca e la luce morbida del crepuscolo hanno creato un’atmosfera di pace e introspezione, accentuata dal suono delle cornamuse e dal canto degli uccelli. Questo ambiente sereno ha fatto da perfetto contrappunto alla collezione presentata.

Essa sorprende sopratutto per il suo coraggioso contrasto. Dior ha saputo mescolare con maestria un’anima sorprendente metal e trasgressiva con elementi della tradizione scozzese. Il risultato? Un mix audace ma classico che ha catturato l’essenza del punk senza perdere di vista l’eleganza intrinseca che caratterizza da sempre il marchio.

Le modelle sfilano, come guerriere che non mancano di dimostrare la loro impetuosa potenza bellica sfoggiando biker boots e abiti vellutati talvolta decorati in pizzo con particolare accortezza nei dettagli, che hanno definito l’elaborato complessivo. Importante è stato il ruolo del tartan su lana, palesato nelle sfumature più variegate dal blu e rosso, al giallo, viola e al senape.

Non è mancata la presenza del kilt, simbolo immortale della tradizione locale, abbinato per l’occasione a giacche di pelle decorate con spille e catene e bomber di nylon, cocker e maglie metalliche, donando una grinta sensuale e maestosa. Il tutto è circondato con eleganza da mantelle in matelassé strutturato e impreziosite da fantasie Toile de Jouy.

Gli accessori sono altrettanto protagonisti all’interno della collezione: borse decorate con motivi tartan, guanti in pelle e cinture borchiate hanno completato gli outfit, sottolineando l’incontro tra lo spirito ribelle e le secolari tradizioni. La tranquillità del castello scozzese ha creato un ambiente quasi mistico, in cui la collezione ha brillato ancora di più in virtù del contrasto.

In un mondo in cui spesso regnano caos e frenesia, la gita fuoripista di Dior nelle terre scozzesi ha offerto una visione di bellezza e di armonia, dove l’audacia del punk incontra la calma della tradizione.

Maria Grazia Chiuri porta in essere la celebrazione di una equilibrata dualità, tra pace e ribellione, tra passato e presente, dimostrando ancora una volta la capacità di Dior di innovare senza tradire le proprie radici. Una collezione che invita a riflettere su come i contrasti possano convivere, creando qualcosa di unico e affascinante.

Zendaya-in-Maison-Margiela

MET GALA 2024: i vincitori

Il Met Gala ha ancora una volta catturato l’attenzione globale. Il tema di quest’anno si è palesato in una celebrazione dell’irrazionale e dell’immaginario che ha trovato la sua massima espressione negli straordinari look indossati da alcune delle più grandi celebrità ed icone del momento.

Maison Margiela, sotto la guida creativa di John Galliano, ha abbracciato il tema con una visione che mescola abilmente realtà e sogno. La casa di moda nota per il suo approccio deconstruttvistico e innovativo si è perfettamente allineata con le astratte richieste del tema dell’evento per il 2024.

Tra gli highlights più notevoli della casa parigina vi è sicuramente il look di Zendaya. Conosciuta per le sue audaci scelte in ambito di moda, specialmente durante le passate edizioni del gala, la star californiana ha sfilato sul red carpet in un abito che sembrava fluttuare tra sogno e realtà.

L’outfit, un’elaborata creazione in tulle e seta con inserti iridescenti, sembrava catturare e riflettere la luce in modo etereo, creando un effetto quasi illusorio che ha lasciato il pubblico senza fiato.

Kim Kardashian, da parte sua, ha optato per un look che ha ridefinito il concetto di glamour surrealista. Il suo abito, una struttura complessa di tessuti traslucidi e riflessi metallici, accoppiato ad un busto che ha decisamente accentuato la silhouette dell’esponente di una delle famiglie più seguite al mondo, ha proiettato una visione futuristica con dettagli floreali che si sono fusi perfettamente con l’estetica richiesta.

Il tema del Met Gala per il 2024 ha invitato i designer a esplorare le profondità più surreale della realtà, deliziando tramite un abbandono della logica a favore dell’esplorazione dell’inconscio e dell’irrazionale. Maison Margiela ha interpretato il tema attraverso l’uso di tecniche sperimentali di taglio e costruzione degli abiti, oltre che attraverso l’uso audace di materiali e texture.

La scelta di questi look non solo evidenzia la maestria tecnica di Margiela, ma sottolinea anche l’impegno della casa di moda nell’essere all’avanguardia dell’innovazione nel design, dimostrando ancora una volta perché è considerato uno dei pilastri fondamentali nell’industria della moda odierna.

Sebbene Maison Margiela si sia concentrata giù sul lato surrealistico del tema di quest’anno, Balmain dal canto suo ha ugualmente catturato l’attenzione e merita di essere annoverato tra i “vincitori” della serata grazie alla sua sorprendente interpretazione del tema più orientato sul concetto dello scorrere del tempo con una serie di look scolpiti direttamente sulla sabbia. 

L’oracolare direttore creativo di Balmain, Olivier Rousteing, ha accettato la sfida del surrealismo con un approccio radicalmente innovativo, utilizzando la sabbia come elemento principale nei suoi design, perfino nel suo stesso look, indossando una singolare t shirt con sopra scolpito il proprio volto.

Tecnica simile è stata utilizzata sulla cantante sudafricana Tayla, che ha portato sulla scalinata del MET un’abito a sirena fatto interamente di sabbia, quest’ultima, infusa e compattata direttamente nei tessuti, ha creato un effetto visivo straordinario che ricordava sculture mobili, dando l’impressione che gli indumenti fossero stati forgiati dalla terra stessa.

Questo uso della sabbia non solo ha aggiunto una dimensione tattile e tridimensionale agli abiti, ma ha anche invocato il surrealismo attraverso la sua capacità di trasformare un materiale quotidiano in qualcosa di straordinariamente lussuoso. L’effetto complessivo era quello di una delicata erosione che rivelava forme e strutture nascoste, riflettendo perfettamente il tema del gala di esplorare l’irrazionale e l’immaginario.

Balmain ha mostrato ancora una volta che la creatività nel design può andare oltre i confini tradizionali del tessuto e del filo, introducendo materiali non convenzionali nella moda di alta gamma e dimostrando che la sua visione artistica è tanto audace quanto quella di Maison Margiela. Questi contributi hanno reso il Met Gala 2024 un campo di battaglia glorioso di innovazione e immaginazione, dove sia Maison Margiela che Balmain hanno brillato come veri visionari.

La vittoria del surrealismo al Met Gala 2024 non risiede quindi solo nell’eccezionalità dei costumi, ma nel modo in cui ha stimolato gli stilisti a esplorare e reinterpretare la realtà. Ogni abito rappresentava una fusione tra arte e moda, un dialogo tra il visibile e l’invisibile, tra il conscio e l’inconscio.

La serata si è dimostrata ancora una volta un trionfo della creatività e dell’innovazione, celebrando non solo stili individuali ma anche il potere collettivo della moda di sfidare, provocare e ispirare.

In sintesi, il Met Gala 2024 non è stato solo un’occasione per celebrare il glamour e la bellezza estetica, ma anche un momento per riflettere su come l’arte possa prendere vita per diventare un mezzo potente per esplorare e reinterpretare la nostra comprensione del mondo.

Con ogni piega di tessuto e con ogni scelta di design audace, il surrealismo ha dimostrato di essere il vero vincitore, lasciando ancora una volta un’impronta indelebile sulla cultura popolare e sulla moda contemporanea.

Il mondo della moda dice addio a Roberto Cavalli

La scomparsa di Roberto Cavalli, avvenuta lo scorso 12 Aprile, segna per il mondo della moda non solo l’addio ad un’icona stilistica, ma anche la perdita di un visionario che ha contribuito a alla creazione del lato più “selvaggio” del glamour con un coraggio e un’estetica inconfondibili.

Cavalli non era semplicemente un designer; era un pittore del tessuto, un maestro dell’esuberanza visiva, il cui lascito continuerà a influenzare l’industria per generazioni.

Nato a Firenze nel 1940, Roberto Cavalli è figlio di una stirpe segnata dall’arte e l’artigianalità, suo nonno, Giuseppe Rossi, era un membro del movimento macchiaioli, precursori impressionisti italiani. Questo background artistico si rifletteva chiaramente nelle creazioni di Cavalli, dove ogni abito era una tela, ogni stampa un’audace dichiarazione.

Cavalli debuttò nel mondo della moda nel 1970 con una serie di stampe su maglia che catturarono l’attenzione di leggende del campo quali Hermès e Pierre Cardin, segnando l’inizio della sua ascesa meteorica.

Tuttavia, fu il suo innovativo processo di stampa su pelle che rivoluzionò il design di moda, fondendo tecnica e arte in modi che prima di lui erano impensabili. Con questa tecnica, il cuoio si trasformò in un materiale morbidamente lussuoso adornato con disegni audaci e colori vibranti.

Roberto Cavalli è stato il pioniere dell’uso della stampa animalier nella moda di lusso, facendo della fantasia leopardata un simbolo di sensualità e audacia. Le sue passerelle erano un tripudio di colori, un incontro tra il selvaggio e il raffinato, spesso impreziosite da accenti in pelle e denim lavorati con maestria.

L’impatto di Cavalli sulla moda è tangibile non solo nelle sue creazioni, ma anche nell’approccio che ha
ispirato in altri designer. Ha reso il lusso accessibile, non solo in termini economici ma anche estetici,
dimostrando che la moda può essere al tempo stesso esuberante e elegante.

La sua visione ha trasformato il modo in cui la gente percepisce il vestire: meno come una necessità e più come una forma di espressione personale e di arte.

Uno dei valori più importanti per Cavalli era senz’altro la famiglia, avendo fondato il suo impero con l’aiuto della moglie Eva durante i primi anni. Il suo marchio è cresciuto fino a diventare un nome familiare, simbolo di un lusso sfacciato ma sofisticato.

La sua scomparsa segna la fine di un’era, ma il suo stile rimarrà sempre nelle collezioni che continuano a portare il suo nome. Cavalli aveva inoltre ricevuto una laurea honoris causa in Fashion Management dalla Domus Academy di Milano il 18 giugno 2013, dove ha tenuto una lezione magistrale al termine della cerimonia.

Roberto Cavalli non è stato solo un designer; è stato un artista del nostro tempo, un vero innovatore che ha lasciato un’impronta indelebile nel mondo della moda. Il suo lascito vive nelle linee audaci, nelle texture ricche e nelle stampe vivaci che continueranno a adornare gli amanti della moda di tutto il mondo.
Oggi, mentre il mondo della moda piange la perdita di un gigante, celebriamo la vita di un uomo che ha
osato sognare in colori vivaci. Roberto Cavalli, il visionario, l’artista, l’icona, sarà profondamente rimpianto, ma sicuramente, mai dimenticato.

CCAF5BFB-1F35-492C-BC4D-CB793AE88DC2

Le rivoluzioni di Demna Gvasalia

Demna Gvasalia, dal 2015 Art Director di Balenciaga, sa dare forma umana alla creatività dall’alto della sua capacità tecnico sartoriale,  costruendo un immaginario seguendo le linee della decostruzione, come ci insegna Margiela.  

“Un legame tra il passato e il presente”, tra Cristóbal Balenciaga che fonda la sua casa di moda nel 1917 e Demna, in un mondo che è completamente diverso dagli anni in cui lavoravano i grandi sarti.              Questo spinge Demna alla costante sperimentazione dello stupore, portando il pubblico a non distogliere lo sguardo dalla collezione come nel caso della sua ultima sfilata autunno/inverno 2024-25.

Demna si può permettere il lusso della creatività, decostruendo l’immaginario di riferimento, trasformando il vestito da oggetto esclusivo a oggetto collettivo, così tutto diventa quotidiano anche il glamour degli abiti da sera. La mutazione dell’imperfetto, dall’ugly-chic di Prada alla rule breaker di Demna (sconvolgo quel che voglio).

Tutto questo è frutto di un percorso di vita formativo fortemente voluto. Di origine georgiana, scappa dalla guerra e si ritrova in un mondo moderno pieno di stimoli. I suoi sensi sono iper stimolati e il suo desiderio di entrare a far parte del mondo della moda è più forte del retaggio sociale dei suoi genitori.

Gvasalia si iscrive alla Royal Academy of Fine Arts di Anversa, in cui si fa subito notare per la sua innata creatività. Durante il periodo a Parigi, affina la sua idea di stile in casa Margiela e da Louis Vuitton, confrontandosi alla pari con i prodigi della moda come Marc Jacobs e poi con Nicolas Ghesquière.

Gvasalia nel 2014 fonda Vêtements insieme al fratello, alla stylist Lotta Vulkova e a un gruppo di amici. Un progetto per cui tutti avevano poco tempo ma il fashion system, sempre a caccia del nuovo da osannare, si appassiona al coraggio del radicalismo e ridicolizzazione delle tendenze del mercato.

I volumi over – over – oversize, la tendenza hardcore e l’estetica dell’Europa orientale diventano il focus delle collezioni di Gvasalia e il “brutto” diventa trend.

Sceglie come modelli perfetti sconosciuti, trasforma marchi tecnici in oggetti del desiderio. Pezzi cult diventano le magliette DHL gialle, il trench nero con la scritta Vetements, i pantashoes spandex, le maxi felpe, lo stile bikecore e i meme.

E quando un jeans, una maglietta gialla e un giubbotto over-size costano come un abito da sera griffato, diventa il marchio simbolo di lusso e non l’outfit facilmente copiabile dal fast fashion, trasformando l’immaginario delle proporzioni e gli usi degli abiti che tutti indossiamo. Così l’abbigliamento di Demna è più un atteggiamento che una cosa da possedere.

Il Fronte Rove di riferimento, diventa uno strumento di comunicazione potente, parte della collezione stessa, una comunicazione che rimbalza velocemente sui social media e infiamma i cuori dei fan  che inevitabilmente li porta all’imitazione dello stile.

Con la sua arte, Demna prende in giro con l’ironia e il cinismo che lo contraddistinguono, così com’era Cristóbal Balengiaga, controcorrente ed elitario ma dotato di una elegantissima creatività, con le sue bocche finte e le parrucche gialle, trasformando ciò che è brutto in sartoria creativa.

Le sue sfilate trasgressive, contemporanee, pratiche, sono fra le più attese del fashion system, eclatante fu quella in connubio con Alessandro Michele, ex Art Director di Gucci.

Demna trasforma le sue passerelle in uno strumento di denuncia sociale, non solo riflette lo zeitgeist culturale, ma allo stesso tempo lo guida. Inaugura una nuova versione del  ready-made adattata alla moda: trasforma l’iconica Ikea bag blu da 70 centesimi in oggetto di culto in pregiata pelle da oltre 1800€, stesso successo per le sneakers Triple S, le “ugly sneakers”, l’asciugamano a gonna portafoglio, le Crocs col tacco che odi oppure ami, i vestiti fatti con reggiseni e geniali abiti tenuti insieme con lo scotch che esibiscono il cartellino con il prezzo.

Dal genio creativo di Demna ci aspettiamo ancora che la sua arte sartoriale sappia immaginare e andare oltre, trasformando la donna in una splendida meraviglia di volumi, pieghe, sfrontatezza, determinazione, non curante del giudizio altrui con drappeggi fuori dagli schemi. Non a caso il TIME 2022 inserisce Balenciaga, nella lista dei cento brand più influenti al mondo.

20210723-iris-apfel-0137-1647952594

Iris Apfel: color icon

Cosa ci fa una bambina con degli scampoli di stoffa? Quanto può diventare straordinario il più semplice dei giochi come vestire le bambole quando si diventa grandi?

Questa è la storia di, una bambina newyorkese che giocava con scampoli di stoffa, visitava la boutique di sua madre ed imparava che la monocromia è solo una delle tante scelte possibili, ma non la più eccezionale. Stiamo parlando di Iris Apfel!

Crescendo, studia storia all’Università di New York, decidendo solo successivamente di intraprendere la carriera di giornalismo in moda tanto da partecipare ad un concorso per entrare a far parte della redazione di Vogue Paris. Storicamente era in corso la Seconda guerra mondiale e gli uffici di Vogue dovettero chiudere proprio in quel momento, bloccando temporaneamente i sogni di Iris.

Tuttavia il fuoco misto di perseveranza ed ottimismo le bruciava in petto, dalla quale darà vita all’incendio della sua iconicità: prima copista al Woman’s WearDaily, poi collaboratrice dell’illustratore Robert Goodman, poi ancora responsabile di eventi per un complesso alberghiero, ma con ancora troppo pochi capi a disposizione per poter vantare un armadio variopinto.

In quel momento nasce quello che sarà il suo tratto distintivo – il mix and match – che funzionando perfettamente con gli abiti applicherà anche nella sua carriera da arredatrice. Si ritrova a scoprire i magazzini Loehmann’s, in cui si potevano trovare capi griffati a prezzi stracciatissimi, dove ricevette il commento che la distinse nel tempo: “Non sei una bellezza, ma hai stile!”

In un’intervista dichiarò di non essere una grande fan di Coco Chanel: da un lato vi era Mademoiselle Chanel che proponeva abiti lineari, pratici, osannava il nero, dall’altro Iris Apfel che si divertiva a combinare tessuti, trame, accessori dalle misure sproporzionate rispetto alla sua figura esile e minuta. 

Ad un certo punto della sua vita, Iris Apfel si innamora dell’uomo da cui prenderà il cognome e alla quale sarà legata sentimentalmente, artisticamente e imprenditorialmente per sessantasette anni. Insieme fonderanno la Old Wide Weavers, industria tessile che si occuperà niente meno che di curare l’interior design della Casa Bianca.

Variopinta, eccentrica, geniale, coperta da occhiali tondi, sorridente, amata tanto da ricevere riconoscimenti di ogni genere come una mostra dei suoi abiti e accessori protagonisti al MoMa di New York, la nascita di un documentario dedicato alla sua vita, una Barbie a sua immagine e somiglianza e ancora una cattedra all’Università di Austin.

Iris Apfel nel tempo è riuscita a stupire con curiosità, disponibilità e allegria chiunque incontrasse, così da diventare l’icona per eccellenza di tutte le persone del mondo che hanno apprezzato la sua filosofia: more is more, less is a bore.

Quindi, cosa ci fa una bambina con degli scampoli di stoffa? Chiedetelo a tutti i bambini che scoprono la bellezza dell’arte in ogni sua forma, la risposta è semplice: giocare.

E cosa fa quella bambina quando diventa Iris Apfel? Continua a giocare, sperimentare, divertirsi. Questa è la storia di come una signorina newyorkese è diventata un’icona di stile mondiale, e di come il mondo della moda e dell’arte piange la sua dipartita dello scorso 1° marzo 2024.

Con i suoi 102 anni ed un sorriso enorme quasi quanto i suoi occhiali, ci ha insegnato che mai bisogna fermarsi ad aspettare che le cose accadano, ma bisogna credere nelle proprie passioni, alzarsi ed andare a prendere ciò che ci spetta perché “Se sei pettinata bene e indossi un bel paio di scarpe te la puoi cavare in ogni situazione”.