La 60ma Biennale di Venezia, Foreigners Everywhere – Stranieri Ovunque, curata da Adriano
Pedrosa, si è conclusa il 24 novembre 2024. Il titolo di questa Biennale prende il nome da
un’opera del collettivo Claire Fontaine, ispirata a un volantino anarchico trovato a Torino, due
parole che esprimono un duplice significato: lo straniero è la persona che stiamo guardando o
siamo noi? La verità è che siamo tutti stranieri, andiamo tutti incontro alla diversità dell’altro
mettendo in gioco anche la nostra, ritrovandoci fuori posto, essendo ovunque noi, e incontrando
ovunque gli altri.
In questa edizione si tratta il diverso, il viaggio, l’integrazione, la tradizione, i canoni ed a tale
scopo spesso troviamo opere che utilizzano la forma tessile, riconoscendola come un prezioso
strumento di narrazione. Pedrosa ha scelto di dare spazio ad artisti che non avevano mai
esposto alla Biennale, tra i quali Ana Segovia.
Ana Segovia (1991) è un’artista messicana, una pittrice che in questa occasione ha esposto la
sua prima opera video: “Pos’ se acabó este cantar” ovvero “bene, ora basta cantare”. Il titolo
dell’opera non viene giustificato ma, facendo una piccola ricerca, si può supporre che provenga
da una pellicola messicana Dos tipos de cuidados, dove i protagonisti sono due famosi cantanti
charros messicani, Jorge Negrete e Pedro Infante. “Pues/pos’ se acabó este cantar” è la frase
conclusiva di una copla, un duetto dal sapore dissing tra i due protagonisti che culmina in una
minaccia di duello frenato dall’intervento di una delle donne contese dai due charros.
Il charro è il cowboy messicano, esempio di virilità, prototipo maschile, un’identità antica
risalente all’epoca coloniale legata all’attività dell’allevamento degli animali ed anche ad una
certa spettacolarizzazione di tale pratica. A questa usanza segue una tradizione cinematografica
sicuramente comica ma decisamente machista, un film con Adriano Celentano in Messico, per
intenderci, dove gli uomini devono dimostrare che la loro virilità risponde alle aspettative della
società in cui sono inseriti.
Ana Segovia rimodula i parametri: seleziona delle stoffe ritenute inopportune per la figura del
charro. A conferma, l’artista ha ricevuto diversi rifiuti prima di trovare un sarto che si prestasse
al loro confezionamento, perché appunto quelle stoffe sono da “finocchi”. Jorge Negrete, l’unico
sarto che ha deciso di collaborare con lei, in principio aveva chiesto di restare anonimo proprio
per non associare il suo nome a questo scempio, ma ha cambiato idea una volta visto il risultato.
Ad una prima occhiata ho pensato che i colori scelti fossero la versione fluo di una selezione di
bandiere queer, ciononostante l’artista dichiara di aver scelto tali colori per infiocchettare,
patinare, attrarre, come in un negozio di caramelle, in un luogo innocuo. L’opera, locata nella
sede dell’Arsenale, si configura in una piccola stanza ricavata al centro della sala, uno dei suoi
dipinti sulla parete esterna a darci il benvenuto accanto all’ingresso. Dentro le luci sono soffuse,
le pareti sono rosa fluo, e da fuori si intravede uno still dell’opera video su quello che sembra
essere la parte frontale dello schermo mentre in realtà ne è il retro. Sentiamo però dei suoni,
scroscii, tonfi, calpestio, rumori di schiaffi. Voltiamo l’angolo e troviamo due charros, in abiti tipici
tinti di rosa, azzurro e arancio fluo, che si percuotono: c’è un misto di violenza, gioco ed
erotismo.
Il video riparte, non vediamo mai i volti dei charros (uno dei quali interpretato da Ana), il loro
genere non è identificabile; si vestono, si vestono a vicenda, chiudendo i bottoni e rimboccando
le camicie l’una dell’altra. L’erotometro cresce: a vestizione ultimata si spingono, picchiano, fino
a spaccare la parete gialla dello sfondo. Una carta di caramella che contiene qualcosa di marcio,
forse l’incapacità di gestire l’emotività, l’impossibilità di esprimere il desiderio oppure il
meccanismo malsano per cui la passionalità viene confusa con la violenza.
È chiaro per me, per quanto immagino sia facile pensarla diversamente, considerata la difficoltà
che incontriamo a trattare questi temi, che non si voglia sminuire l’atteggiamento maschile;
piuttosto, con le consapevolezze acquisite negli anni, si vuole mostrare che è possibile fare
diversamente, al di là del genere. Non bisogna necessariamente rispondere a dei parametri
radicati.
La trovo una riflessione sulla cultura, sulle culture, che, seppur distanti, si incontrano su
molti punti, sul darci la possibilità di essere più di ciò che viene determinato alla nascita, per
sesso, cultura o per altri fattori. Penso sia l’auspicio a crescere, ad accrescerci, privandoci dei
substrati di cui si vestono i due charros, indumento dopo indumento.