In un attimo imprecisato, scalfito nel tempo, la moda ha smesso di parlare di glamour e ha iniziato a parlare di noi.
Le trasparenze sfoggiate come ferite aperte e i contorni scolpiti come scudi, in sinergia con colori che cercano disperatamente la luce dentro l’ombra, hanno dominato i look presentati dalle celebrità che hanno presenziato alla 82ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.
L’osservazione attenta delle scelte stilistiche degli ospiti rivela infatti un linguaggio condiviso: quello della diafanità, della rivelazione e della silhouette come verità estetica.

Accanto a una nudità simbolica sempre più marcata, le forme aderenti o scolpite diventano vere e proprie corazze. Emma Stone, presente per Bugonia di Yorgos Lanthimos, ha scelto un Louis Vuitton custom-made dalle linee delicate, quasi sospese, in cui il rigore iniziale è addolcito da bagliori argentati e volumi che fluttuano intorno al corpo.
Il suo abito non è corazza ma fragile baluardo, capace di evocare una resistenza poetica che non rinuncia alla vulnerabilità. Dal canto suo Julia Roberts sceglie un Versace firmato Dario Vitale, dalle sfumature gotiche e monumentali. Qui il corpo non si dissolve, ma si compatta: resiste, opponendosi alle fratture del presente come un bastione inespugnabile.


Accade poi che, quando il tessuto non protegge, allora il corpo diventa armatura. Non si tratta della leggerezza della fuga, bensì della compattezza della resistenza: il corpo, stretto nel suo abito, diventa territorio inespugnabile, pronto a confrontarsi con le forze esterne.
Un fluttuante Maison Margiela Couture di Glenn Martens, indossato da Kim Kardashian, arrivata a Venezia per presenziare ai Diane von Furstenberg Awards, imita una seconda pelle diafana che si affianca ad un abito drapé ulteriormente impreziosito da un collier Tiffany & Co. d’archivio 1999, riportato in vita da Mia Goth. In entrambi i casi, il corpo – pur coperto – si offre agli sguardi dei presenti. La limpidezza diventa linguaggio universale e rende evidente ciò che normalmente resterebbe nascosto, incarnando ciò che l’essere umano può rappresentare se trovato in mezzo a un conflitto: esposto, fragile, costretto a mostrare e dimostrare.


Alba Rohrwacher contribuisce a quest’ottica del viaggio temporale con un Dior custom-made che richiama le silhouettes del Settecento. L’abito (che ha richiesto 126 ore di lavoro) rappresenta il debutto di Jonathan Anderson nell’Haute Couture della maison. Qui la memoria storica si pone resistenza culturale: il recupero delle forme del passato come gesto di riaffermazione identitaria. I volumi posteriori, solenni e imponenti, evocano epoche di potere e disciplina, ma trasposti in un oggi incerto assumono il valore di un’armatura estetica, fragile ma necessaria.



Il predominio del nero – da Schiaparelli a Dior, passando per le versioni couture di Saint Laurent – non può che essere letto come evocazione di lutto e inquietudine. Eppure, a bilanciare, compaiono tocchi di colore calibrati e simbolici: il lilla etereo di Maria Braz in McQueen, il blu regale di Zhao Tao in Prada, il bianco puro e scultoreo di Alicia Silverstone. Cromie che alludono alla ricerca di speranza e purezza in un contesto dove l’oscurità pare predominante.
A questo proposito, Benedetta Porcaroli, protagonista de Il rapimento di Arabella, incanta il Lido con un abito anch’esso firmato Prada che trasforma i fiori in linguaggio di gentilezza. I suoi gioielli Pomellato celebrano l’asimmetria come nuova forma di eleganza, allontanandosi dal canone classico per suggerire un equilibrio diverso, più umano. In un contesto dominato da nero e rigidità, la sua scelta floreale comunica un atto di resistenza poetica: affermare che anche nel caos possano sbocciare grazia e cura.


In un mondo percorso da divisioni e incertezze, tensioni identitarie e paure collettive, le case di moda hanno scelto di non offrire evasione, ma rappresentazione: la rivelazione di corpi vulnerabili, l’illusione della protezione, la drammatizzazione della fragilità.
Negli anni scorsi, il Festival aveva privilegiato una moda più classica ed escapista, fatta di drappeggi hollywoodiani, richiami rétro e silhouette da diva senza tempo. Il tappeto rosso era percepito come luogo di evasione, una bolla dorata in cui il glamour schermava dal caos esterno.
Quest’anno, invece, la moda al Lido ha raccontato la nostra realtà. Venezia 2025 sarà ricordata come l’edizione in cui la diafanità ha reso visibile la vulnerabilità, e le silhouette hanno cercato di trasformarla in forza. Un linguaggio estetico che, tra glamour e politica, ci costringe a guardare in faccia il tempo in cui viviamo.
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