Ci sono stagioni in cui la moda tace, e altre in cui parla con voce limpida, capace di attraversare il rumore del presente.
La Paris Fashion Week 2025 è una di quelle stagioni in cui la moda ha parlato. E lo ha fatto in italiano. Non per nazionalismo, ma per linguaggio: quello che intreccia la forma alla riflessione, la tradizione alla libertà, la bellezza alla misura.
Pierpaolo Piccioli e Alessandro Michele, in due capitoli differenti della stessa narrazione, hanno restituito alla moda la sua profondità originaria: quella di un atto umano, colto, mai gridato. Il primo, nel suo debutto da Balenciaga; il secondo, nella seconda uscita alla direzione creativa di Valentino. Due italiani che non cercano l’effetto, ma la verità.

Con Piccioli, Balenciaga ritrova la grazia del silenzio.
La collezione The Heartbeat si apre come un dialogo tra epoche: l’eco dei tagli di Cristóbal, la leggerezza di un corpo che non si offre, ma si muove dentro lo spazio del tessuto.
Piccioli non “reinventa” Balenciaga — lo ascolta. Ne misura la voce, ne traduce l’essenza con una devozione che non ha nulla di nostalgico. Le linee si fanno liquide, la stoffa diventa aria. È una moda che respira, che non impone, che si sottrae all’ossessione dell’immagine per tornare al gesto, al rito del costruire.

In un tempo che confonde la novità con il rumore, Piccioli sceglie la via più audace: quella della sobrietà.
Crea spazi, non forme; ritmo, non effetto. La sua Balenciaga non chiede applausi: chiede attenzione. E nel farlo, ristabilisce il legame sacro tra il corpo e l’abito, tra la donna e la sua ombra.

Con Alessandro Michele, Valentino si trasforma in un diario sentimentale. Non più il barocco esplosivo del suo periodo Gucci, ma un’eco dolce, calibrata, fatta di velluti, di fiocchi, di memorie tessili che non sono mai pura nostalgia. Ogni capo è un frammento di tempo: un pensiero cucito, una confessione sussurrata. Michele non parla di moda come decorazione, ma come rito collettivo, come spazio in cui la memoria diventa luce.

Nel suo Valentino non c’è eccesso, c’è misura. L’ornamento torna strumento poetico, non status. È un barocco che ha imparato il silenzio, un sogno che non vuole stupire, ma comprendere.
E questa è forse la sua più grande maturità: aver compreso che il potere dell’immaginazione non sta nell’accumulo, ma nella scelta. In una passerella che pareva sospesa tra sacralità e confessione, Michele ha restituito alla moda il suo valore più raro: la tenerezza.
Un abito può essere tenero quando custodisce, quando non aggredisce, quando invita a sentire piuttosto che a guardare. E questo è ciò che la sua seconda Valentino ci insegna: che la bellezza può ancora essere gentile, e dunque rivoluzionaria.

Piccioli e Michele non si somigliano, ma si completano. Entrambi credono nella moda come linguaggio dell’anima, non come strumento di consumo. Piccioli parla la lingua della luce, Michele quella dell’ombra.
Uno libera, l’altro avvolge. Uno scava nella struttura, l’altro nella memoria. Insieme, compongono un racconto nuovo: la rinascita di un pensiero italiano che non teme la lentezza, la cura, la complessità.
Laddove altri cercano la provocazione, loro cercano la verità. Laddove il sistema chiede velocità, loro restituiscono tempo. E forse è questo il vero significato di La moda parla italiano: non un trionfo estetico, ma un ritorno etico. Perché la moda che sa ascoltare, che sa tacere, che sa attendere, è sempre — profondamente — italiana.

In un’epoca che consuma tutto ciò che tocca, Piccioli e Michele non vendono vestiti: offrono visioni. Ci insegnano che la moda, quando è pensata, è un atto spirituale. Che l’eleganza, quando nasce da dentro, è una forma di resistenza. E che la vera rivoluzione, oggi, è la delicatezza.
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