Vestirsi di aspirazioni. L’opera ‘Persona’ racconta di noi

Presentata alla Biennale Arte di Venezia 2022, all’interno del padiglione Uruguay, l’opera ‘Persona’ di Gerado Goldwasser racconta cose diverse, piuttosto esplicite, rendendo innegabile il fatto che vestiamo di ciò che in qualche modo rappresenta il nostro essere, o di quello che vorremmo essere.

Uno specchio ed una pedana su cui salire, da cui possiamo guardare ed identificare nel nostro riflesso, controllando con quella attrazione spesso narcisista come stiamo: se siamo davvero noi l’immagine riflessa o se qualcosa è fuori posto. Forse non ci riconosciamo vedendo quello che vedono gli altri, ci scopriamo mentre lo sguardo scorre e scopriamo di essere appendici del nostro sentire.

Non è inusuale riconoscere l’aspirazione di una persona o la sua appartenenza osservando di cosa si adorna, ed è buffo vedere come persone degli stessi ambiti si adeguino ad un certo stile, divise sociali dell’immaginario culturale, affinché gli altri ci riconoscano, ci attribuiscano una certa appartenenza, dandoci casa e tregua.

La famiglia dell’artista ha visto diverse generazioni di sarti e Goldwasser ha scelto di affrontare la tematica dell’abito utilizzando grandi bobine di lana nera, con cartamodello appuntato, Mesa de corte, la sua Medidas rigide, una lunga sfilata di maniche El saludo.

Con la curatela di Pablo Uribe e Laura Malosetti Costa, il progetto è stato ispirato da due manuali tedeschi di sartoria che Goldwasser ha ereditato da suo nonno, recluso per 16 giorni in un campo di concentramento ed obbligato a realizzare uniformi per i nazisti, un progetto di omologazione della persona. Oltre a contenere le indicazioni per le uniformi all’interno di questi testi c’erano le istruzioni per vestire l’intera società, collocando ognuno al proprio posto.

Persona’ è la riflessione sulle regole sociali e sartoriali, sugli schemi da seguire ed eseguire, sulla massa e l’individuo che ne fa parte, individuo che cerca sé stesso attraverso la visione dell’altro.

Le armature di Roberto Capucci al Labirinto della Masone

Sono esposte al Labirinto della Masone di Franco Maria Ricci, le armature di Capucci, non di ferro ma di seta, le cui strutture complesse regnano sulla forza di gravità. Così con la cura della Fondazione Franco Maria Ricci, della Fondazione Roberto Capucci e la storica d’arte Sylvia Ferino, emergono gli abiti del couturier poste in relazione alle opere d’arte già presenti all’interno della struttura neoclassica, appartenenti alla collezione Ricci.

L’idea della mostra nasce dal libro dedicato a Capucci, edito da Franco Maria Ricci nel 1993 in occasione dei trent’anni dalla sua uscita.  Sono esposti tutti gli abiti presenti nella monografia, 24 creazioni tra cui i due abiti iconici “Fuoco” 1985 e “Bouganville” del 1989, insieme con 68 bozzetti originali, che vanno dagli anni ’50 agli anni ’90, e la maquette di un abito del 1987. In aggiunta troviamo altri due abiti corti bianchi caratterizzati da maschere in rilievo, non presenti nella pubblicazione ma che si sposano con la collezione permanente del museo.

Tra i fondatori del Made in Italy, rimane nella storia per la concezione dell’abito che va oltre il comune utilizzo, elevandolo a opera d’arte, ragion per cui le sue creazioni collaborano benissimo con le opere che si mostrano tra un plissé e l’altro. Interprete come pochi della natura e delle potenzialità di un tessuto, il concetto di bellezza è sempre stato presente nel suo lavoro, non una bellezza effimera, ma potente e indefinita, come quella dei fiori e delle farfalle, del fuoco e dell’acqua. Il suo legame con la natura trova un’affinità con il luogo dell’esposizione, il più grande labirinto esistente, immerso anche esso nella natura, composto da 200 mila piante di bambù e altre specie diverse.

Creazioni volumetriche, protagoniste e imponenti con la loro bellezza, conosciute come sculture di plissé e taffettà, uniche nel loro genere.  Nel corso del tempo, molte star del cinema e del teatro hanno fatto i conti con questa bellezza indossando i suoi abiti, ricordiamo Silvana Mangano nel 1971, Valentina Cortese nel 1987 e ancora June Anderson nel 2002, diventando prova del fatto che gli abiti di Capucci sono una prova di forza, non solo fisica ma anche e soprattutto emotiva.

Un mago del tessuto, tra le tante denominazioni dedicate a Roberto Capucci vi è quella di fare magie con i volumi, le forme, i colori e i tessuti.

Per l’importante occasione, con il sostegno della Fondazione Franco Maria Ricci, alcuni degli abiti sono stati restaurati dal laboratorio Restauri Tessili di Moira Brunori, con sede a Pisa, restauratrice di fiducia della Fondazione Capucci. La sua filosofia viaggia oltre i confini materiali dell’abito e si trasforma in quelle forme ondulate, plissettate e ribaltate che conosciamo come costruzioni d’arte.